173 – “Sia santificato il tuo nome”_2 (07.10.07)

Il pensiero della settimana, n. 173.

 

Passiamo al secondo passo, cioè Esodo 20,7: “Non pronuncerai invano il nome del Signore (YHWH) tuo Dio perché il Signore (YHWH) non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano”. In virtù di quanto si è detto si comprende che si tratta non di Dio in senso generico, ma del Signore che si è rivelato a Mosè e che in quella circostanza ha definito il suo nome per sempre.  Lì ha rivelato  nello stesso tempo sia la propria presenza, sia (per ricorrere a un termine non biblico) la propria  trascendenza. Il Signore da nome impronunziabile diventato  il  tuo Dio. Il Signore si qualifica nel rapporto che ha con le proprie creature.

Nel  contesto più specifico dei Dieci comandamenti, il precetto di non nominare invano il nome del Signore va  collegato all’autopresentazione di Dio posta  all’inizio del passo: “Io sono  il Signore tuo Dio, Colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù, non avrai altri Elohim (altri dèi) davanti a me”.  Io sono il Signore (YHWH) tuo Dio: è l’autopresentazione di Dio a cui corrisponde, nell’assunzione del comandamento e della fedeltà, l’impegno a tener conto della grandezza dell’azione salvifica da lui compiuta (l’esodo dall’Egitto) e del nome a essa collegata. Perciò non lo si può nominare invano. In realtà tutti i Dieci comandamenti sono retti da quella presentazione. Pronunciarla in modo vano significa far cadere  tutto il resto; tutto è o banalizzato o profanato. Il comandamento implica – e qui ci avviamo verso il nostro terzo punto – che il nome, una volta affidato da Mosè ai figli di Israele, può essere anche impiegato male, può essere pronunciato vanamente. È una rivelazione affidata a chi la riceve. Solo chi la osserva e la custodisce è all’altezza del compito che gli è chiesto.

Terzo passo tratto dal profeta  Ezechiele. Si tratta di un brano che si può facilmente  far interagire con la proibizione contenuta nei Dieci comandamenti. Il suo contenuto lo si può riassumere così: voi profanate il nome del Signore fra le genti – vale a dire lo pronunciate invano – quando il vostro comportamento si contrappone a quello conforme ai precetti del Signore.  Siamo all’epoca dell’esilio  babilonese, il popolo ebraico vive in mezzo alle genti ed Ezechiele mette in luce che un determinato modo di agire profana il nome del Signore. Per estensione, si potrebbe ironicamente affermare che a noi è dato il privilegio di profanarlo, mentre non è concesso fino in fondo quello di santificarlo. Ezechiele infatti rivendica che è il Signore stesso a rivendicare a sé la santificazione del proprio nome. L’atto di santificare è azione sua. Come a dire,  l’uomo può imbrattare ma è solo Dio che può far risplendere. Il trentaseiesimo capitolo di Ezechiele è un riferimento decisivo per comprendere il ruolo affidato alla santificazione o alla profanazione del nome, il quale diviene quindi una realtà aperta su due prospettive contrastanti. Se va santificato significa che non è già integralmente santo. La prova che non sia una realtà intoccabile sta  proprio nel suo poter essere profanato. Ci può essere anche il rovescio della medaglia, può essere profanato, non soltanto pronunciato invano, ma anche imbrattato dal comportamento del suo popolo. Il  passo di Ezechiele è molto lungo, i versetti cruciali sono però quelli che vanno dal 21 al 22.  Il Signore parla per bocca del profeta dicendo: “Ma Io ho avuto riguardo per il mio nome santo che i figli di Israele avevano profanato. Annuncia alla casa d’Israele: così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi gente di Israele ma per amore del mio nome santo che voi avete profanato tra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande profanato tra le genti, disonorato in mezzo a loro” (Ez 36,21-22). “Santificherò il mio nome grande”, in questo passo si  scorge molto nettamente la contrapposizione tra una profanazione del nome compiuta dai figli d’Israele quando danno (per usare termini catechistici) una contro-testimonianza e una santificazione che viene assunta dal Signore quando egli, compiendo un’azione di salvezza o, all’opposto, anche punendo, dimostra di guidare la storia: “Io santificherò”.  Vale a dire il Signore santificherà il proprio nome agendo, facendo quanto voi avete evitato di compiere. Si potrebbe dire così: mi avete costretto a mandarvi in esilio, ora sono Io ad agire per la punizione, ma poi anche e soprattutto per la salvezza. C’è  un riferimento che è importante per capire, si tratta del riferimento alle genti: avete profanato in mio nome tra le genti, Io lo santificherò tra le genti. Le genti sono i gojim; vale a dire  i non ebrei  che vedono la sorte di Israele: se la sua sorte è un destino di tradimento, fallimento, esilio, ecc., il Signore di Israele non è riconosciuto, perciò il suo nome è profanato; se  invece  il popolo testimonia la propria fedeltà e il Signore attua la sua opera di salvezza, in nome del Signore d’Israele è santificato.

Adesso inizia a farsi meno oscuro perché quando ci si riferisce al nome del Signore si allude alla sfera della comunicazione. In precedenza ci siamo riferiti al nome ineffabile che non si può essere pronunciato. Si è davanti a una specie di contraddizione in termini: se si tratta di un nome allora, per definizione, sembrerebbe impossibile non pronunciarlo.  Quindi ci troviamo di fronte a un “nome non-nome”.  Però il nome è  anche una realtà che si manifesta: può essere santificato o profanato a seconda che nel mondo, attraverso  una buona o una cattiva testimonianza,  cresca o scemi la “fama” del Signore. Perché ci si riferisce alle genti? Perché sono loro a dover riconoscere l’azione del Signore o guardando il comportamento di Israele o vedendo l’azione di Dio compiuta nei confronti del suo popolo.

Nel vangelo di Matteo il Padre Nostro è  riportato – come si è detto – all’interno del Discorso della Montagna. In esso ci sono passi carichi di una certa tensione contraddittoria. Ad un certo punto infatti Gesù invita ad agire nel segreto per essere visti solo dal Padre celeste (Mt 6,1-3); di contro in  altri passi si afferma: “voi siete la luce del mondo […] così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,14-16). In questi ultimi versetti non si parla in modo esplicito di santificazione, ma in essa è ben espressa l’idea di rendere gloria non già ai discepoli di Gesù, bensì al Padre che è nei cieli. Se invece il vostro modo di agire in luogo di far luce estende le tenebre allora è come se i discepoli profanassero il nome del Signore. Questo senso è collegabile all’invocazione del Padre nostro. La traduzione interconfessionale in lingua corrente (la cosiddetta Tilc) traduce “sia santificato il tuo nome” con “fa che tutti  riconoscano te come Padre” (Mt 6,9). Più che una traduzione si tratta di una mezza spiegazione; però in essa vi è una parte di verità. La resa sottolinea con sufficiente precisione che una componente della santificazione del nome sta nel fatto che  Dio sia riconosciuto da tutti come Padre. Sullo sfondo c’è l’affermazione biblica che proclama il finale riconoscimento del Signore d’Israele da parte di tutte le genti.

Il riferimento che compiamo ora non è esegetico in senso stretto. Vale a dire non può essere assunto come fonte storica per la comprensione del Padre Nostro. Si tratta di in commento giudaico allo Shema‘ Israel (“Ascolta Israele”) redatto in epoca successiva ai vangeli; tuttavia, per così dire, vi si respira una certa aria di famiglia. Esattamente ci si riferisce al brano iniziale: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno” (Dt 6,4). Perché, ci si domanda,  si accostano le due qualifiche di uno e di nostro? Se  il Signore è uno, non è per definizione il Dio di tutti? Non sarebbe opportuno affermare, come nel caso di Allah, che si tratta di Iddio senza aggiungere altro? E si risponde, il senso è questo: ora, nel tempo presente, solo Israele e pochi altri lo riconoscono come Dio, mentre in avvenire ciò avverrà a opera di tutti. L’annotazione non ha alcuna diretta attinenza col Padre Nostro; tuttavia l’idea che la santificazione o la glorificazione del nome passi attraverso il riconoscimento umano e che il suo allargamento dipenda dalla testimonianza di coloro che già lo conoscono non è certo estranea alla preghiera di Gesù. Tuttavia resta indiscusso che la definitiva santificazione avverrà ad opera di Dio stesso.

Il quarto passo di cui ci occupiamo è tratto dall’ultimo capitolo del profeta Zaccaria. Il suo senso può essere riassunto in questa domanda: quando avverrà che tutti lo riconosceranno come Signore? Nel corso della storia qualcuno lo profana, altri lo santificano, qualcuno lo riconosce, altri no. Siamo nella parzialità e nella divisione. Per il profeta Zaccaria  il riconoscimento universale del nome del Signore avverrà nel tempo finale, messianico, escatologico. Espresso nel lessico biblico con queste parole “in quel giorno” (che va distinto da “questo giorno”). C’è una tensione verso il giorno avvenire. L’ultimo capitolo di Zaccaria è incentrato sul futuro pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. Esso avverrà durante  la festa delle Capanne. In questo contesto si trova l’affermazione (continuamente ripetuta nella liturgia ebraica) che prospetta, per quel giorno, l’unificazione del nome del Signore: “In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale, parte verso il mar Mediterraneo, sempre, estate e inverno. Il Signore (YHWH) sarà re di tutta la terra e in quel giorno il Signore sarà uno e il suo nome uno [la CEI traduce non molto bene:  ‘e ci sarà il Signore soltanto e soltanto il suo nome’]” (Zc 14,8-9). Nel passo è contenuta l’affermazione ultima dell’unità del Signore. Egli è già uno da sempre e per sempre; tuttavia perché il suo nome sia definitivamente uno occorre che tutti lo riconoscano come tale. È già uno, ma sarà pienamente uno quando sarà adorato da tutti.  Gli “dèi falsi e bugiardi” per un verso non sono mai esistiti; ma, colti sotto altra angolatura, essi in un certo senso continuano a esistere finché c’è qualcuno che crede in loro. Non a caso i Dieci comandamenti prescrivono di non avere altri dèi di fronte al Signore (Es 20, 3). Se la loro inesistenza fosse assoluta il comando non avrebbe ragion d’essere. Solo quando la credenza negli elohim; l’unità del Signore e del suo nome sarà davvero piena.

È stato osservato che questo tema biblico è passato nella tradizione di Israele fino a giungere all’epoca di Gesù. Leggiamo un passo di una preghiera ebraica di cui non conosciamo bene la datazione, ma che è certamente precristiana nei suoi nuclei portanti. Questa preghiera si chiama Qaddish (qadosh in ebraico significa “santo”). È una preghiera che ha varie somiglianze (ma anche varie differenze) con il Padre Nostro. Di questa preghiera esistono varie forme tuttora in uso nella liturgia ebraica. Si tratta comunque di una preghiera solenne che implica la presenza del minjan (dieci maschi religiosamente adulti necessari per gli atti liturgici più importanti). Come si vedrà, anch’essa fa ricorso al passivo divino.

“Il suo grande nome sia magnificato e santificato [si risponde: Amen] nel mondo che ha creato secondo la sua volontà; e realizzi il suo regno durante la vostra vita e nei vostri giorni e durante la vita di tutta la casa di Israele presto e in un tempo vicino. E dite Amen [e si risponde: Amen, sia benedetto il suo grande nome per l’eternità, per l’eternità di eternità sia benedetto], e lodato e magnificato, innalzato, glorificato, esaltato e celebrato il nome del Signore, Benedetto Egli sia [e si risponde Amen]…”.

Si tratta, come è facile comprendere, di una preghiera molto più ripetitiva del Padre Nostro che ha però al suo centro questi due termini accomunanti: nome e regno. La santificazione del nome è collegata perciò alla venuta del regno.

Giunti alla fine del nostro percorso ci si può chiedere come, tenendo conto di questi sparsi riferimenti, vada intesa l’espressione sia santificato il tuo nome. Alcune conclusioni appaiono sufficientemente sicure: bisogna tener fermo che nell’espressione compare un passivo divino, nessuno infatti può davvero essere in grado di santificare il nome tranne il Padre stesso; tuttavia ciò, lungi da escluderlo, addirittura implica che la comunità che nella sua preghiera chiede la santificazione del nome contribuisca ad attuarla. Si tratta di qualcosa di più o di diverso da una pura lode (“Santo, Santo. Santo il Signore Dio dell’universo…”), qui si domanda che  il Signore, in virtù anche della nostra recitazione, della nostra invocazione, della nostra testimonianza, possa infine essere universalmente riconosciuto da tutti come Padre. In conclusione, la prima domanda del Padre Nostro “sia santificato il tuo nome” ci conduce direttamente alla seconda: “venga il tuo regno”.

Piero Stefani

 

 

173 – “Sia santificato il tuo nome”_2 (07.10.07)ultima modifica: 2007-10-06T10:05:00+02:00da piero-stefani
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