172 – “Sia santificato il tuo nome” _1 (30.09.07)

Il pensiero della settimana n. 172

 

Premessa. Questa settimana e la prossima riproduco una sbobinatura (rapidamente rivista) di una conversazione tenuta alla parrocchia dell’Immacolata di Ferrara il 15 maggio 2007. Il tema costituisce l’argomento del piano pastorale per il 2007-2008 della diocesi  Ferrara-Comacchio 

 

Spero di essere abbastanza ordinato ed introduttivo. Faccio una premessa: siamo di fronte a una formula, nel senso buono del termine, che conosciamo da sempre: “sia santificato il tuo nome”; tuttavia se si cerca di spiegarla, essa non è così immediata da capire. È certamente un’espressione di fede, ma è culturalmente ben determinata, proveniente da un ambito specifico, quello della Bibbia ebraica e della tradizione ebraica più o meno coeva all’epoca di Gesù. Non entrerò in questioni di ordine storico. Comunque la semplice constatazione del fatto è sufficiente a indicare una distanza. La cultura biblico-giudaica non è più la nostra, anche se ne siamo eredi, si tratta però di un lascito mescolato a molti altri influssi.

 Basta pensare a questa espressione, sia santificato, per creare un certo sconcerto, o almeno una certa difficoltà: perché il nome (termine su cui ovviamente torneremo) deve essere santificato? Nell’uso consueto, la parola “santo” è un termine riferito prevalentemente, anche se non esclusivamente, alle persone, non ai titoli o alle cose (l’acqua è santa nel senso di sacra). La santificazione, ed è il punto nevralgico, è poi enunciata attraverso un verbo coniugato in una forma passiva priva di complemento d’agente. Ci si chiede allora: il tuo nome deve essere santificato, ma da chi? L’espressione è aperta, non c’è una risposta esplicita. La forma passiva priva di complemento di agente si trova varie volte nella Scrittura. Si pensi alle Beatitudini (Mt 5,1-10):  “Beati gli afflitti perché saranno consolati… beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio.”. “Saranno” da chi? Al riguardo tra gli studiosi della Bibbia è invalso da tempo l’uso di parlare di passivo divino. L’espressione vuol dire che, almeno nella maggioranza dei casi, quando il complemento d’agente è sottinteso va compreso come se fosse riferito a Dio. “Saranno chiamati figli di Dio”, da chi? Da Dio stesso,  è  Lui che li chiamerà figli.

Non è così facile cogliere immediatamente se l’espressione sia santificato il tuo nome sia da intendersi come passivo divino, vale a dire se è il Padre stesso a santificare il proprio nome. Se anche fosse così (e in effetti è così) bisogna riuscire a pensare a un’azione di Dio rispetto alle prime tre domande del Padre Nostro, quelle  che riguardano più direttamente Dio. In esse il termine tuo ritorna tre volte. Quel che qualifica il rapporto con il Padre è un Dio a cui ci si rivolge col Tu. Anche quando si afferma, con fondamento, che la santificazione del nome di Dio è opera sua, resta, comunque, da individuare dove essa abbia luogo. Avviene in noi? Avviene attraverso noi? Avviene in Lui? Chi santifica il nome di Dio è Dio, ma lo fa anche attraverso colui che recita le parole della preghiera? La santificazione del nome di Dio si compie dunque anche attraverso le labbra dell’uomo? Che rapporto c’è tra questo processo che avviene giorno dopo giorno e la completa, definitiva santificazione del nome collocata alla fine dei tempi? E, soprattutto, perché la si dice come una richiesta e non già come una constatazione? Il nome deve essere santificato, ma non lo è già in tutta la sua divina pienezza? Nel Padre Nostro non vi è una semplice lode della santità del Signore tipica della “liturgia celeste”; non è come avvenne per Isaia quando nel tempio vide il Signore assiso sul trono e ascoltò i serafini cantare: “Santo, Santo, Santo è il Signore…” (Is 6,2-4). Lì si celebra una santità già pienamente in atto. In questo contesto non si fa però riferimento al nome del Signore. Il “sia santificato il tuo nome” non è una realtà puramente celeste. Non è una dimensione semplicemente attestata, affermata, lodata. Non significa semplicemente: “Tu sei santo”. Non si tratta neppure di una santità addotta come motivo per prospettare un determinato comportamento umano, così come è detto nel Levitico: “Siate santi perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2). Neppure in questo passo si fa, peraltro, riferimento al nome. Per comprendere l’invocazione del Padre Nostro, dobbiamo perciò guardare alla santificazione in relazione non già al Santo in se stesso, bensì in rapporto al nome del Signore.

I riferimenti biblici al nome di Dio sono moltissimi. In effetti, dovremmo smettere di dire il nome di Dio; non è la formulazione giusta. Occorre parlare del nome del Signore che è altra cosa. Tuttavia per comprendere – o cercare di farlo – il senso proprio della santificazione del nome ci soffermeremo solo su quattro fondamentali passi dell’Antico Testamento. Data l’attualità del riferimento, forse val la pena di sottolineare che soltanto due di essi sono presi in considerazione nel libro di Ratzinger, Gesù di Nazaret. Benedetto XVI, infatti,  affrontando il  Discorso della montagna propone, ovviamente, anche un suo commento al Padre Nostro (Mt 6,9-13)

Il primo brano che considereremo proviene dal terzo capitolo dell’Esodo in cui si narra la rivelazione del nome del Signore avvenuta al roveto ardente. Il secondo è, evidentemente, la prescrizione del Decalogo  che  vieta di pronunciare invano il nome  del Signore. Entrambi sono presenti nel libro di Ratzinger. Il terzo è un passo estremamente importante che si trova nel trentaseiesimo capitolo di Ezechiele. Il quarto, altrettanto decisivo, è contenuto nell’ultimo capitolo di Zaccaria. Questi quattro passi ci aiuteranno a capire un po’ di più vicino sia il termine nome sia l’espressione sia santificato il tuo nome.

La scena del roveto ardente è nota. Di essa esamineremo soltanto alcuni versetti. Mosè nel deserto di Madian pascola il gregge del suocero Ietro; vede il roveto e vuole avvicinarsi; quando vi si approssima ode una voce che lo chiama per nome e definisce la sacralità del luogo: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai  è una terra santa” (Es 3,5) (sacro o santo, qui sono intercambiabili). Da lì prende avvio il più esteso dialogo tra il Signore e una propria creatura tra quelli presenti nella Scrittura (copre i capitoli 3 e 4 del libro dell’Esodo). Per comprenderne  l’intera portata bisognerebbe leggere buona parte di questi due capitoli; tuttavia il cuore del discorso lo si trova nei versi 3,13-15. Nel complesso si tratta di un dialogo effettivo in cui le due componenti si confrontano in modo aperto. Dio vuole mandare Mosè in Egitto per liberare il suo popolo: “Mosè disse a Dio: ecco io arrivo dai figli di Israele e dico loro che il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi, ma mi diranno: Come si chiama? E io cosa risponderò loro?” (Es 3,13). Mosè avanza una richiesta per qualificare il Dio dei padri Dio in ebraico si dice Elohim, si  tratta di  un nome generico che vale per tutte le divinità. È il termine comune per indicare la sfera del divino. Gli dèi in ebraico si dicono allo stesso modo: elohim. Se ci si trova davanti alla parola elohim senza sapere  se è riferita a un verbo al singolare o al plurale, la si può rendere legittimamente sia con Dio sia con  dèi. In ogni caso è una parola molto generica, non si tratta di un nome proprio. Mosè invece chiede di venire a conoscenza appunto di un nome proprio. La richiesta può essere pensata anche all’interno di una mentalità, per così dire, politeista: là dove ci sono molte divinità ognuna deve avere un nome per essere distinta dalle altre. Là dove vige un certo tipo di monoteismo assoluto non c’è bisogno di un nome proprio. Il caso classico – allargando un attimo il campo – è l’Islam.  Rispetto al passo biblico si tratta, è scontato, di un riferimento anacronistico, ma concettualmente è importante proporlo. Allah vuol dire semplicemente Dio con l’articolo determinativo davanti: il Dio (in italiano lo si potrebbe rendere con Iddio). È la stessa radice semitica di El (da cui il plurale ebraico elohim). Iddio non è un nome proprio. Allah non ne ha bisogno perché è uno solo. Questo vale anche per l’umanità. All’origine c’era l’Adam (che significa semplicemente l’uomo); egli diventa Adamo soltanto quando, dopo la cacciata, occorre distinguerlo da Caino e Abele.

Nella Bibbia – per ricorrere a termini fin troppo astratti – abbiamo un monoteismo non assoluto,  bensì relazionale. Dio si qualifica con i nomi propri dei patriarchi con cui ha parlato: Abramo, Isacco, Giacobbe.  Tuttavia quando  Mosè gli chiede qual è il suo nome in se stesso, la risposta è molto  particolare. “Dio disse a Mosè: Io sono Colui che sono” (in ebraico ehjeh asher ehjeh, espressione che si può tradurre in vari modi, per esempio “Io sono Colui che sarò”, “Io sarò Colui che sarò”). Queste parole sono allo stesso tempo una risposta e una non risposta, un nome e un non nome. Sembra un “non nome” perché in prima battuta è un rifiuto di qualificarsi. “Poi disse: dirai ai figli di Israele: ‘Io sono mi ha mandato a voi’. Dio aggiunse a Mosè: ‘Dirai ai figli di Israele, il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi, questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione’ ” (Es 3,14-15). Colto sotto una determinata angolatura qui è espresso un rifiuto di comunicare un nome specifico. Non c’è  nulla di paragonabile  a una situazione in cui, per esempio, si fa riferimento a Gesù. Gesù è a tutti gli effetti nome proprio, senza sfumature o ambiguità. Ovviamente  il Padre Nostro va inteso come la  preghiera di Gesù (genitivo soggettivo). Quando Gesù chiede la santificazione del nome, pensa non a se stesso  ma al Padre. Si tratta di  un riferimento a un nome definito come tale, ma che pur non può intendersi  in senso strettamente personale. Abramo, Isacco e Giacobbe sono nomi di uomini e non di Dio. La qualifica avviene solo attraverso la presenza di un genitivo (tanto soggettivo quanto oggettivo): Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

Il nome è impronunziabile. Dalla rivelazione del roveto deriva il Tetragramma (YHWH) che tradizione ebraica proibisce di pronunciare. Al posto di quelle lettere ineffabili si dice o il temine il Nome  (in ebraico haShem), oppure  con la parola ebraica Adonai, (resa in  greco con Kyrios, in latino con Dominus, in italiano con Signore). Nella Bibbia quando  troviamo il termine Signore dobbiamo pensare che dietro c’è il nome vale a dire il Tetragramma, perciò è un caso diverso da dire Dio (differenza che sembra non colta da Ratzinger nel suo libro su Gesù in cui, riferendosi, ai Canti del servo di Isaia dice sempre servo di Dio e non, come afferma il testo, “servo del Signore”). “Questo è il mio nome per sempre”, cioè una realtà non afferrabile, non utilizzabile.

Piero Stefani

172 – “Sia santificato il tuo nome” _1 (30.09.07)ultima modifica: 2007-09-29T10:10:00+02:00da piero-stefani
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