169 – Un minuto di silenzio (09.09.07)

Il pensiero della settimana n. 169

 

Nella parte finale della sua vita il grande direttore d’orchestra Bruno Walter si era trasferito in California. Aveva abbandonato New York, città da lui paragonata a un allegro furioso per stabilirsi nell’andantino grazioso di Bevery Hills. Seduto su una poltrona da giardino fu intervistato, a non molta distanza dalla morte (avvenuta nel 1962 a ottantasei anni), da un giornalista di Los Angeles. Collaboratore e successore di Gustav Mahler, Walter era una incarnazione della cultura mitteleuropea rifugiatosi nei pressi del Pacifico: il suo vero cognome era Schlesinger ed era ebreo.

Il maestro aveva un’alta concezione morale della musica. Quando gli si chiese cosa pensasse del jazz, rispose inorridito che quella musica stimolava gli istinti più bassi degli ascoltatori, mentre la vera arte eleva. Esponente intransigente della tradizione dichiarava di non comprendere molta musica contemporanea: l’atonale peccava per mancanza di norme, mentre la dodecafonica era ingabbiata in un eccesso costrittivo di regole. L’una e l’altra avevano smarrito l’equilibrio tra vincoli e libera invenzione proprio della musica che si suol definire classica. Quando a quest’uomo, formatosi nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, fu chiesto cosa pensasse delle registrazioni discografiche, la risposta fu però un’approvazione senza riserve. Pur restando vero che il disco non uguaglierà mai l’ascolto diretto, la qualità del suono – aggiungeva –  è assai migliorata, restituisce molto dell’esecuzione originaria e soprattutto consente di allargare a dismisura il numero delle persone in grado di abbeverarsi alla fonte pura dell’arte.

Accanto a queste considerazioni oggettive ne aggiungeva una soggettiva. La possiamo riesporre pressappoco così: i compositori hanno bisogno degli esecutori, altrimenti la loro musica resta soltanto sulla carta, meravigliosa ma muta; come il sole rinasce ogni mattina così l’interprete ridesta ogni volta al suono quanto era silente; le partiture scritte rimangono immortali perché sono perennemente richiamabili in vita; al contrario per lungo tempo nessuno diede un futuro all’‘esecutore  rianimatore’, la vita da lui concessa all’opera d’arte era più breve di quella di una farfalla; oggi però la registrazione tecnica concede l’immortalità anche all’interprete. Per questa via colui che tiene in vita le opere altrui conquista per se stesso una presenza anche dopo la propria morte. Tuttavia – si potrebbe commentare – il suo lascito è ormai immodificabile. È una realtà duratura, ma irrigidita. Nel disco il respiro della vita non si rinnova e l’evento della nascita del suono è fissato per sempre e non creato momento per momento. Per questi motivi, al tramonto della sua vita, Sergiu Celibidache, direttore divenuto sempre più immerso nella speculazione mistica, cominciò a detestare le registrazioni.

Con i dischi anche i direttori d’orchestra raggiungono l’immortalità. Se ciò vale  per chi fa suonare altri, molto di più lo si può affermare per chi trova lo strumento della sua arte all’interno stesso della propria persona. Il cantante lirico deve acquisire molte nozioni, apprendere una difficile tecnica, conseguire quanto non aveva in precedenza (la voce deve essere impostata), ma alla base ci sono qualità che si è trovato e non può modificare: un uomo dalla voce acuta non può cantare da basso e viceversa. Nessuno sceglie i colori dei propri occhi, il profilo del proprio naso, la lunghezza dei propri piedi; analogamente nessuno sceglie il timbro della propria voce. Su tutto si può ormai intervenire, ma pur sempre a partire solo da realtà presenti e non scelte.

Nella storia dell’umanità vi sono state voci che hanno cambiato il mondo. Hanno insegnato ma non hanno scritto. Buddha, Socrate. Gesù, Muhammad hanno parlato, le loro corde vocali hanno emesso suoni che da millenni nessuno più ode. Non sappiamo nulla del timbro, dell’accento, delle pause del loro parlare. La loro voce, a differenza delle loro parole, non è più una presenza. È una perdita, ma non irrimediabile perché altri ci hanno trasmesso per iscritto dei contenuti. Per un cantante ciò non avrebbe molto senso. Abbiamo scritti che raccontano di alcuni di loro. I nomi sono conosciuti dopo secoli; ma sono palliativi: la voce è scesa con loro nella tomba. Su per giù da un secolo a questa parte le cose hanno cominciato a mutare; prima fra brusii e distorsioni poi in modo sempre più limpido migliaia di voci sono sopravvissute ai loro possessori. È un fenomeno diverso da quello di un quadro dipinto da un artista. In quest’ultimo caso si tratta di un manufatto, si è cioè in una dimensione poietica; il canto rientra invece nella sfera pratica che cessa con l’estinguersi dell’azione. Le registrazioni hanno in parte concretizzato un sogno di immortalità. In ciò non c’è nulla di prometeico, né di disumano; vi è solo dell’artificio. Qui l’arte non imita la natura, piuttosto va contro di essa, come del resto sempre accade quando si vuole sottrarre qualcosa alla morte.

In queste ore il globo intero è avvolto dalla voce di Pavarotti. Meridiani e paralleli vibrano di acuti tenorili. È il modo più scontato per ricordarlo; ma è improprio per dire una morte umana. Nel funerale a Modena risuonerà un prodigioso «vincerò»; avremmo preferito il silenzio. Questa opzione sarebbe rimasta tale anche se si fosse trattato di un pezzo musicale più consono alla circostanza dell’aria pucciniana resa presenza massmediatica universale dalle apparizioni canore-sportive dei «tre tenori». In realtà, nessuna registrazione sarebbe adatta all’occasione. La morte è sempre una perdita umanamente irrimediabile a cui si confà solo il vuoto. Per qualche istante occorrerebbe porlo al centro: la voce è stata resa silente e per qualche ora dovrebbe restare tale. Per ricordare pubblicamente avvenimenti luttuosi si fa un minuto di silenzio. Non ci sarebbe nulla di più proprio che comportarsi in modo analogo anche e soprattutto per un cantante. Poi ci sarà spazio adeguato per il ricordo e per apprendere ancora da un magistero tanto irrigidito quanto autentico. Allora sarà il tempo opportuno per l’ascolto delle registrazioni.

Piero Stefani

 

169 – Un minuto di silenzio (09.09.07)ultima modifica: 2007-09-08T10:30:00+02:00da piero-stefani
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