168 – Figli adottivi (02.09.07)

Il pensiero della settimana, n. 168

 

Si trattava di un incontro ecumenico dedicato alla paternità di Dio. Vi partecipava anche il vescovo della città. Il suo intervento fu, in larga misura, dedicato a raccontare una storia. Molti anni prima aveva avuto modo di occuparsi di un adolescente. Era stato adottato; la famiglia però gli aveva tenuta a lungo nascosta la sua condizione. Quando infine l’apprese per il giovane fu un trauma. Da quel momento ebbe un solo pensiero: scoprire chi fosse la propria madre naturale. Mise in mezzo anche il futuro vescovo il quale, però, non riuscì a far progredire l’indagine: all’atto dell’adozione la coppia si era solennemente impegnata a non rivelare i nomi degli  autentici genitori.

Il prete continuava a frequentare il ragazzo. Una volta, ospite in casa sua, vide, non senza  sorpresa, la sua amplissima raccolta di dischi di canti di montagna. In un’altra occasione erano entrambi in gita sopra il passo del Falzarego. Giunti alla vetta, il giovane aveva il viso trasfigurato. La gioia gli riempiva il volto. Tuttavia, nonostante questi entusiasmi, il tarlo della ricerca continuava  a roderlo. Instancabilmente tentava le vie più impreviste per giungere all’agognata meta.

Passò ancora del  tempo. Un giorno il prete ricevette una telefonata: era il giovane che, con voce esultante, gli comunicava di aver individuato chi fosse sua madre. «Sapete di  dov’era?» domandò retoricamente il vescovo ai suoi ascoltatori, «era di Castelrotto, la nota località turistica alpina in provincia di Bolzano. Nel ragazzo si era fatta udire la voce del sangue. La passione per la montagna gli scorreva letteralmente nelle vene. Perché vi ho raccontato tutto ciò? Perché la stessa cosa vale per Dio: la sua paternità è inscritta dentro il cuore dell’uomo. Egli può non riconoscerla, ma essa si farà a poco a poco sentire, non cesserà fino a quando non verrà accolta la verità fondamentale e universale stando alla quale Dio è Padre e noi tutti siamo suoi figli».

Il pesante riferimento biologistico alla «voce del sangue» sconcertò più di un ascoltatore. Non c’era di che stupirsi, soprattutto pensando che tra il pubblico vi erano persone impegnate in maniera continuativa nella pratica dell’affido. Ma perché farne un dramma? In definitiva si sarebbe potuto trattare solo di un esempio poco felice per affermare una realtà comunque vera, quella in base alla quale noi tutti siamo figli di Dio. Eppure neanche qui il discorso può presentarsi in maniera omogenea e uniforme. Per accorgersene basta pensare alle fondamentali prospettive neotestamentarie che prospettano la paternità di Dio partendo dall’altro polo: la figliolanza umana. Si scoprirà allora che quest’ultima raggiunge il proprio apice quando si evoca la categoria dell’adozione e non quella della naturalità. Non è difficile comprenderne il perché: il ‘salto della fede’ comporta acquisire quanto non si ha. Quel che  conta non è essere già figli, ma essere costituiti tali in virtù di un atto diverso da quello della nascita. Nella fede diventar figli è più importante di esserlo. Per  questo sia per il credente in Gesù Cristo sia per l’intero popolo d’Israele (Rm 9,4) il termine più qualificante è proprio «adozione a figli» (yiothesia).

«Ma quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se  figlio sei  anche erede per volontà di Dio» (Gal 4,4-7; cfr. Rm 8,15-17). La prova che si  è figli sta nel fatto che lo Spirito grida: Abbà. Per quale motivo è stata conservata questo termine aramaico? Di solito si afferma che si tratta di parola infantile che esprime una inaudita intimità inconcepibile prima di Cristo. Ora Dio può venire chiamato ‘Babbo’. E sia (anche  se dal punto di vista filologico le cose, per la verità, non sono sicure). Ma se anche fosse così, non andrebbe dimenticato che la parola della figliolanza infantile è pronunciata dallo Spirito, in una lingua diversa da quella materna propria dei credenti che si trovavano in Galazia. Nell’universo linguistico greco irrompe, per dire quanto c’è di più vicino, un termine estraneo, aramaico. Se volessimo proporre un paragone umano dovremmo pensare al caso di un bimbo adottato proveniente da un paese lontano, che, per dire babbo a chi, a tutti gli effetti, gli è ormai padre, abbandona la lingua materna e assume quella del paese in cui abita la sua nuova famiglia. L’intimità con Dio Padre è quella di  figlio adottivo. Ciò è confermato dal fatto che il vero soggetto che parla aramaico non è neppure il credente ma lo Spirito che grida in lui. L’intimità è un’acquisizione, non un punto di partenza. Nella fede – ma, con le  differenze del caso, ciò vale anche per le relazioni interumane – la voce che conta è quella dello Spirito, non quella del sangue. L’atto discriminante si concretizza nel costruire relazioni là dove esse erano inesistenti. Le metafore spirituali sono dotate di sensi loro proprie, ma, di riflesso, esse lasciano intravedere ricadute non prive di rilevanza umana e sociale. Anche in questo ultimo campo il primato, infatti,  non va certo attribuito alla voce del sangue.

 Piero Stefani

 

168 – Figli adottivi (02.09.07)ultima modifica: 2007-09-01T10:35:00+02:00da piero-stefani
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