167 – Il tradizionalismo modernista di Benedetto XVI (15.07.07)

 Il pensiero delle settimana, n. 167.

 

Il dissacrante Voltaire termina in maniera esplicita il suo Trattato della tolleranza  con una preghiera rivolta a Dio perché gli uomini riconoscano la loro comune piccolezza, cessino di perseguitarsi a vicenda, cosicché «coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti tollerino coloro che si accontentano della luce del tuo sole! che coloro i quali coprono la veste di una tela bianca per dire che bisogna amarti non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un manto di tela nera». Dal canto suo, il devoto Benedetto XVI conclude, in modo implicito, il suo motu proprio, Summorum Pontificium enunciando un messaggio che può essere trascritto, su per giù, in questi termini: «che coloro che ti pregano in lingua volgare tollerino coloro che innalzano le tue lodi in latino e viceversa». Anzi, bisognerebbe andare al di là dello spirito di pura tolleranza per giungere a quello della piena comprensione, se non dell’unione.

La ragione positiva in virtù della quale Benedetto XVI ha deciso di emanare il motu proprio è detta apertis verbis: «Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente».

Non c’è bisogno di sottolineare che si tratta di un desiderio di unità unilaterale ed ecclesiocentrico. Infatti, mentre si continua a perseguire, con tenacia degna di miglior causa, gli ultimi epigoni della teologia della liberazione e a impedire ogni seria ricerca teologica nell’ambito del dialogo interreligioso, si accredita di ansia di unità chi è dotato di nostalgie preconcliari o addirittura chi, disobbedendo, è passato sulla sponda dei seguaci di mons. Lefebvre ( «affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente»).

Per quanto sui mass media sia passata in questi termini, la questione legata al Summorum Pontificium non gravita attorno alla messa in latino. Ovviamente nella liturgia quella lingua è sempre stata in uso e  a tutti è lecito impiegare la versione latina del Messale di Paolo VI. Il cuore del problema sta nel rendere legittima, accanto a quella nata dalla riforma liturgica frutto del Vaticano II,  la messa preconciliare. Colta in questa luce si comprende che la posta in palio (capitale per la sorte della Chiesa cattolica) riguarda l’ermeneutica del concilio. Benedetto XVI è un papa che governa la Chiesa universale in virtù degli orientamenti e delle sensibilità teologiche da lui espressi in epoca precedente alla sua elezione (scelta, quest’ultima, che lo condannerà a passare alla storia come Ratzinger). In questo spirito, il papa aveva già espresso nel modo più chiaro quale doveva essere  la giusta interpretazione del Vaticano II nel discorso da lui tenuto alla curia romana a fine 2005 (cfr. Regno-documenti.1,2006, pp. 5-10). In quell’intervento egli aveva prospettato due ermeneutiche del concilio: quella della discontinuità e della rottura con la tradizione precedente (da lui attribuiti ai progressisti) e quella della riforma che esprimerebbe il vero senso della tradizione. L’uso della parola ‘riforma’ – termine legato alla massima rottura del cristianesimo occidentale – per dire una continuità si può giustificare solo in virtù di un’interpretazione esclusivamente  pastorale del Vaticano II: il concilio, nella sostanza, non ha mutato nulla.

L’ermeneutica della rottura accreditata all’ala ‘aperturista’, in realtà, è stata elaborata e praticata proprio dalla frangia tradizionalista: chi altri ha accusato il concilio di tradimento a motivo dei suoi cedimenti alle istanze della modernità? Tuttavia il paradosso sta nel fatto che, in nome di una supposta tradizione, i tradizionalisti si sono arrogati il diritto, moderno, di scegliere in proprio, di disubbidire al magistero conciliare e di accreditare di uno statuto definitivo una forma di Chiesa controriformistica, espressione, palese, di una epoca storica non più normativa di qualunque altra.

Ratzinger tenta di attuare una impossibile quadratura del cerchio, affermando che il Vaticano II non ha mutato nulla: si può quindi essergli fedeli anche attenendosi a quanto era ad esso precedente. Per venire incontro ai tradizionalisti, Benedetto XVI nega la validità dell’ermeneutica di rottura da essi proposta sostenendo, semplicemente, che non c’è stata alcuna frattura. Come loro, però, lo fa appellandosi (inconsapevolmente?) ad alcune istanze tipicamente moderne: il diritto di scegliersi in proprio un rito piuttosto che un altro, l’elogio del pluralismo, la comprensione per la disubbidienza. Si tratta, è ovvio, di  istanze del tutto estranee alla tradizione, la quale, pur ammettendo la pluralità dei riti, nega la libera opzione per due forme alternative all’interno dello stesso rito.

Secondo il Summarum Pontificium «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Nel corso della preghiera universale del Venerdì Santo  (il momento più alto in cui si celebra l’unità della Chiesa e del disegno salvifico di Dio per il genere umano) secondo il vecchio rito si pregava perché «eretici o scismatici» ritornino in seno alla Chiesa cattolica.  Secondo il rito attuale si recita: «Dio onnipotente ed eterno, che riunisci i dispersi e li custodisci nell’unità, guarda benigno il gregge del tuo Figlio, perché coloro che sono stati consacrati da un solo Battesimo formino una sola famiglia nel vincolo dell’amore e della vera fede». Secondo il Messale preconciliare si pregava per la conversione  di quello che un tempo fu il popolo eletto, vale a dire per gli ebrei ciechi e ostinati. Il rito attuale invece proclama: «Dio onnipotente ed eterno che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla tua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione» (versione imperniata sulle certezze paoline della perennità dell’elezione d’Israele e di una redenzione che avviene secondo le inaccessibili vie di Dio (cfr. Rm 11,29-36). In mezzo tra la vecchie e le nuove formulazioni c’è il Vaticano II (nella fattispecie il decreto Unitatis Reditegratio e la dichiarazione Nostra aetate).

Il vangelo è «segno di contraddizione » (Lc 2,35) in maniera molto diversa da quella della logica; tuttavia, oggi come oggi, basterebbe che chi tanto esalta il logos desse ascolto almeno al principio aristotelico di non contraddizione.

Piero Stefani

 

Errata corrige

In relazione al pensiero 166 mi sono accorto, fuori tempo massimo, che, a differenza di quanto da me affermato, in Crimini e misfatti si impiega la formulazione plurale «occhi di Dio». A ciascuno stabilire – ammesso che abbia tempo e voglia per farlo – cosa delle considerazioni là espresse resta valido e cosa, invece, va destituito di fondamento.

 

 

167 – Il tradizionalismo modernista di Benedetto XVI (15.07.07)ultima modifica: 2007-07-14T10:40:00+02:00da piero-stefani
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