164 – Da un cielo all’altro (24.06.07)

Il pensiero della settimana, n. 164.

 

In un suo intervento tenuto allo Studium generale Marcianum il 18 aprile 2007 (cfr. Regno-documenti 9, 2007, pp. 313-320), l’arcivescovo di Vienna card.  Schönborn torna sui temi della creazione e dell’evoluzione  da lui già affrontati in un discusso intervento apparso nel 2005 sul New York Times. Si tratta di un testo ampio e composito che pare guidato soprattutto dall’idea che lo scienziato debba, in qualche modo, trovare nel suo lavoro motivi, almeno indiretti, a sostegno di un «disegno intelligente» posto all’origine del cosmo e della vita. L’iniziale evocazione di Newton e della sua convinzione che l’universo dipenda dal dominio esercitato da un Dio onnipotente (Pantocrator) offre, probabilmente, la principale chiave interpretativa dell’intervento. È vero però che questa convinzione viene integrata, alla fine, da una evocazione della  theologia crucis richiesta dall’immensità di dolore implicato dall’evoluzione (cfr. pensiero n. 145 ): «La croce è la chiave del progetto e consiglio divino. Per quanto importante, essenziale, sia un approfondimento rinnovato della filosofia  della natura, il logos della croce è l’ultima saggezza divina. Perché con la sua santa croce ha conciliato il mondo intero. Ma la croce è porta della resurrezione» (ivi, p. 320).

Per alcune tradizioni cristiane, specie dell’Oriente, evocare tanto la bellezza quanto la  croce può suonare, in effetti, come il cuore stesso del messaggio evangelico. Ma la questione è che lo si può proporre, con coerenza, solo abbandonando l’idea di una natura retta da leggi suffragate, almeno in parte, da indagini empiriche. Quando tutto si muove nella dimensione degli archetipi, dei simboli, delle vestigia, insomma quando si percepisce il cosmo in modo mistico  allora può avere un profondo significato evocare la croce e la resurrezione come risposta alle sofferenze del creato. Difficile invece seguire la stessa linea se si ipotizza l’esistenza di una natura che, in ragione delle sue leggi interne, rimanda a un sommo Reggitore che, proprio come affermato da Newton nel suo Scholium generale ai Principia, può presentarsi solo come Pantocrator che nulla ha da spartire con il crocifisso (non si dimentichi che Newton fu un unitariano, vale a dire un negatore della Trinità).

In un passo della sua conferenza l’arcivescovo di Vienna afferma che la posizione dei «creazionisti», intesi nel senso letterale del termine, «si basa su un’interpretazione della Bibbia che la Chiesa cattolica non condivide. La Bibbia non ci insegna “how the heaven go, but how to go to heaven” (S. Jaki, Darwin’s Design, Port Huron, MI, USA 2006, p. 4)» (ivi, p. 315).  Fa un po’ impressione vedere citata in inglese (e implicitamente attribuita a un autore contemporaneo) la celebre distinzione galileiana tra come va il cielo e come si va in cielo. Il fatto è tanto più sorprendente in quanto la proposta risale a un antico collega del card Schönborn, il card. Cesare Baronio: «Io direi quel che intesi da persona ecclesiastica constituita in eminentissimo grado, cioè l’intenzion dello Spirito Santo esser d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, Marietti 1820, Genova 2000, p. 101). Tuttavia il punto centrale della questione è un altro, ben evidenziato dall’ambivalenza della parola «cielo». Il tema cruciale è se si possa o no trovare una posizione intermedia tra l’accezione non fisica del termine «cielo» usato in riferimento alla salvezza eterna e la sua corrispettiva rigorosa dimensione fisica riferita all’universo. La risposta può essere positiva solo nell’ambito simbolico non in quello metafisico.

Affermare che la Bibbia non insegna come «va il cielo» significa che nelle sue pagine non c’è alcuna legittimazione dell’itinerario che pretende di risalire per via razionale dai moti celesti al loro divin Creatore. Ben s’intende, lo stesso Galileo non sarebbe stato di questo parere; egli infatti non si è mantenuto fedele alla radicale distinzione da lui stesso proposta (per Galileo un’adeguata ermeneutica della Scrittura poteva infatti recar sostegno a una visione copernicana). Tuttavia ai nostri giorni dobbiamo essere più risoluti e trovare quanto meno singolare il fatto che il concilio Vaticano I affermi dogma di fede che si possa dimostrare con la ragione l’esistenza di Dio: «Se qualcuno dice che Dio, uno e vero, Creatore e Signore nostro, non può essere conosciuto con certezza, col lume della ragione, attraverso le cose create, sia anatema» (concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica sulla fede cattolica, Canoni, II La rivelazione, 1).  Se si fosse in grado di provarlo effettivamente  con la ragione che bisogno ci sarebbe di una  fede tutelata da anatemi? La domanda risolutiva, però, è un’altra: quale Dio sarebbe quello eventualmente dimostrato dalla ragione? Forse il Dio che ha riposto nella croce e nella resurrezione il mistero dell’universo? O la ragione riuscirebbe, al massimo, a comprovare il Dio dei filosofi che regge il tutto come Signore assoluto? È una benedizione che tra i grandi scienziati della modernità si annoveri Blaise Pascal, fedele tanto alla esperienza quanto alla distinzione tra il Dio dei filosofi e quello biblico. Ormai da secoli antiche sintesi vanno considerate infrante. È meglio cogliere in questo tramonto un’occasione di liberazione e non un segno di indebolimento della fede. Sarebbe bene, perciò, che chi è tenuto ad annunciare il Vangelo si concentrasse sull’additare la via di «come si vadia al cielo», specie se fosse  capace di indicare che la meta finale è la Gerusalemme che scende dal cielo verso di noi (cfr. Ap 21,2).

Piero Stefani

 

164 – Da un cielo all’altro (24.06.07)ultima modifica: 2007-06-23T10:55:00+02:00da piero-stefani
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