165 – In una chiesa di Chioggia (01.07.07)

Il pensiero della settimana n. 165

 

Mancava poco a mezzogiorno, la chiesa era ampia. Passando dal sole esterno all’interno più che il salto di temperatura o di luce – le finestre erano ampie e la tinta chiara – si avvertiva lo sbalzo di umidità: il pavimento, piuttosto sconnesso, trasudava. Non c’era da stupirsene, dopo tutto si era su un’isola, per quanto minuscola, collegata al corpus della città da un ponte in pietra. Non c’era nessuno e i due visitatori entrarono con la sensazione, ambigua, di non sapere se si dovevano considerare intrusi o padroni; di certo non si sentivano ospiti. Fuori, sulla facciata in mattoni, un cartello in metallo, corroso dal sole e dalla salsedine, dichiarava che nella chiesa vi erano opere di grandi pittori veneti: Carpaccio, Veronese, Tintoretto. L’interno però era dominato soprattutto da un grande crocifisso scultoreo, di stile nordico, posto nell’abside.

I due cominciarono a girare e a guardarsi attorno. A un certo punto sulla parte di destra, scoprirono, piuttosto in alto, un quadro di ragguardevoli dimensioni. Lessero che risaliva al 1520, era di Vittore Carpaccio, rappresentava S. Paolo stigmatizzato: soggetto insolito. Il santo vi si erge solitario, tra erbe, fiori, alberi e cenni di lontane colline, tutti dipinti in tonalità soffuse, preautunnali. Un ampio mantello, di un rosso tutto particolare, avvolge l’abito verde. Paolo con la destra impugna una gran spada, simbolo del suo martirio; nella sinistra ha un libro aperto in più punti. Si comprende che sulle pagine vi è scritto effettivamente qualcosa che all’osservatore resta, però, quasi impossibile da decifrare. Quanto colpisce maggiormente è il fatto che sul lato sinistro di Paolo vi è, all’altezza del cuore, un piccolo squarcio nel vestito: attraverso esso si vede la carne viva in cui è conficcato un crocifisso. Il santo lo fissa e tuttavia ne può vedere solo il retro: il corpo di Gesù è infatti rivolto dall’altra parte, verso il libro. Va notato un ulteriore particolare: l’indice della mano destra, quella che impugna la spada, indica il cuore di carne (cf. Ez 11,19; 36,6 ) in cui è confitta la croce

I due visitatori cominciarono ad avanzare ipotesi su che cosa ci fosse scritto nel libro. Le righe, peraltro, coprono solo una parte delle pagine; la caratteristica fa sì che esse rappresentino il particolare del quadro più spostato verso il bianco. I tre colori rappresentano la fede, nata dalla parola, l’abito della speranza e il manto della carità che tutto avvolge? Mentre erano intenti in questi pensieri, le loro narici colsero, all’improvviso, un forte odore di pesce. Proveniva dalle mani di un signore non alto, né magro, in là con gli anni. Indossava una camicia chiara e i pantaloni erano stretti da  una vistosa cintura. La bilancia interna dei due si spostò dalla parte degli intrusi. Immaginarono che fosse il sagrestano, paventarono  rimproveri per i loro abiti un po’ troppo succinti; previdero di udire un brusco invito a uscire perché era ormai giunta l’ora di chiusura. Tutto lasciava prevedere che il vecchio si stesse preparando un pranzo a base di pesce e avesse fretta di mettere i piedi sotto il tavolo.

Si sbagliavano. Da quel momento in poi sarebbero stati ospiti. Si trattava infatti del parroco in persona. Più tardi avrebbe dichiarato di avere ottantasette anni e  di soffrire di una fastidiosa sciatalgia. Lungi dal sollecitarli a uscire, l’anziano prete non desiderava altro che fare da cicerone. Invitò ad accendere le luci, infilando la moneta nell’apposito foro. Iniziò la sua lezione. Le sue parole avevano qualcosa di meccanico come se provenissero da una recita. Il discorso era ogni tanto interrotto da qualche inopinata battuta in francese. La preferita era: «asseiez vous». Fu un profluvio di parole che illustrarono le tombe dei grandi del passato, i quadri, le devozioni. Molto tempo fu dedicato al grande crocifisso, pescato in mare e da secoli e fino a oggi autore di moltissimi miracoli («ma per esserne convinti bisogna aver  fede»). La città fu descritta antichissima e piena di glorie  di ogni tipo. Tutto il mondo pareva aver avuto a che fare con quel luogo (o viceversa).

Si soffermò anche sul quadro del Carpaccio («un soprannome, come avveniva per tutti gli artisti di quell’epoca, derivato dal suo cognome: Scarpa»). Quanto gli stava a cuore era di evocare un aneddoto: un critico d’arte (già sottosegretario al ministero dei beni culturali) famoso per le sue intemperanze e volgarità e da qualcuno accreditato di una qualche dottrina, litigò con la sovrintendente a proposito della qualità del rosso del mantello: «Eppure entrambi dicevano le stesse cose. È comunque l’ultima opera del Carpaccio, il suo capolavoro e il suo testamento».  Posto di fronte alla questione della scritta rispose con brevità e pertinenza. Alludeva al fatto che Paolo dichiara di portare nel suo corpo le stigmate di Gesù. Dunque sul libro c’era scritto: «ego enim stigmata Domini Iesu in corpore meo porto» (Gal 6,17). In effetti sembrava di intravederlo. Eppure vi era anche dell’altro. E le pagine precedenti, semiaperte, cosa contenevano? Non è assurdo ipotizzare che alludessero all’intera lettera ai Galati. In ogni caso non avrebbe stonato immaginare che si siano scritte parole come queste: «sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20).

Nel quadro il crocifisso è confitto nel cuore: se fosse un oggetto procurerebbe la morte, come simbolo è fonte di una vita nuova. Paolo fissa la croce non il corpo del crocifisso. Forse in questo particolare si può cogliere il segno sia dell’unicità e singolarità della morte di Gesù sia del fatto, che attraverso la fede, essa possa penetrare nella vita di ciascun credente: «Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Il corpo del crocifisso è rivolto verso il libro: la croce interpreta la parola e la parola illumina la croce. Il martirio è solo una specie di coronamento di quanto c’è già nella fede: la croce è più decisiva della spada (si ricordi l’indice della mano che impugna la spada).

Singolare destino quello dei nostri tempi in cui l’accesso a significati, per sempre preclusi ai critici d’arte narcisisti e volgari, passano attraverso la voce di anzianissimi parroci dalle mani impregnate dall’odore di pesce.

Piero Stefani

165 – In una chiesa di Chioggia (01.07.07)ultima modifica: 2007-06-30T10:54:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo