163 – La democrazia sportiva (17.06.07)

Il pensiero della settimana, n. 163

 

Vi sono vari tipi di sport e varie modalità per stabilire chi vince. I casi più semplici si hanno quando basta prendere atto di chi arriva primo: se uno corre, salta, o lancia più degli altri primeggia. Anche in questa eventualità ci sono regolamenti, il ruolo dei giudici è però ridotto: più che stabilire il vincitore a loro spetta eventualmente squalificarlo (il suo lancio può essere nullo, può aver invaso una corsia, può aver danneggiato un avversario e via dicendo). In altre competizioni le regole sono più complesse e in corrispondenza di ciò cresce anche il peso riservato agli arbitri; tuttavia pure in questi casi il loro ruolo non è al 100% determinante. Infine esistono sport nei quali l’esito dipende esclusivamente da  un verdetto: ciò ha luogo quando sono i giudici stessi a determinare il vincitore.

Nella massima parte delle gare a prevalere è la dimensione quantitativa. La vittoria o la sconfitta dipendono dal contare o dal misurare. Un atleta può avere una corsa sgraziata e l’altro essere leggero come una gazzella, ma, in ogni caso, vince chi taglia per primo il traguardo. Un gol può essere di ottima fattura oppure frutto di un rimpallo fortunoso; eppure ai fini del risultato l’uno vale l’altro. Tuttavia vi sono sport in cui è decisiva la dimensione qualitativa. La componente estetica non è misurabile con il cronometro o il  metro. È il caso dei tuffi, del nuoto sincronizzato o di una ginnastica o di un pattinaggio  non a caso definiti artistici. In queste attività non c’è nessun traguardo da tagliare e  nessuna meta da realizzare, quanto conta è la precisione e la grazia  con cui si svolgono gli esercizi. In tal caso tutto dipende dai giudici: essi devono essere competenti (conoscenza delle regole), capaci (abilità nel valutare) e imparziali. Il loro parere è, però, espresso in termini quantitativi  – punteggi – riequilibrati in base a regole convenzionali (per esempio scartando la valutazione più alta e quella più bassa).

L’auspicio per antonomasia delle gare sportive è: «vinca il migliore!». Le parole presuppongono che questa eventualità possa non aver luogo. Ciò può avvenire per pura fatalità (un ciclista prossimo al traguardo è fermato da un incidente meccanico) o per un inganno non scoperto (nell’era del doping il discorso non è teorico). Tuttavia nei tuffi e nella ginnastica artistica  il migliore può anche perdere a causa della incompetenza, della incapacità o della parzialità dei giudici.

Gli arbitri stabiliscono la vittoria, ma perché gli atleti vogliono vincere? Le motivazioni  collaterali possono essere tante (ambizione, gloria, ricchezza, tornaconto di altra natura, ecc.); tuttavia non sembra di sbagliare affermando che la radice prima rimane  il desiderio stesso di vincere, vale a dire di prevalere su altri, di essere (o apparire) il migliore. I record, le medaglie, le maglie, le coppe restano i simboli più veri anche per coloro che, nel contempo, collezionano assegni da capogiro. Ci sono molti modi per fare soldi, ce ne sono meno per vincere una medaglia olimpica nella propria disciplina che può essere anche uno sport (relativamente) povero.

Da tempo nei paesi democratici la politica è diventata sempre più simile a un’attività sportiva. Lo è nel lessico (si pensi a espressioni come «squadra di governo»), lo è soprattutto nel fatto che il cuore  della politica si è spostato sempre più dal governare al vincere. Quanto conta è ottenere la vittoria. A molti politologi appare ormai una normale regola del gioco che non si vinca per governare, ma si governi per tentare di rivincere. Non è detto però che l’esito elettorale dipenda in maniera semplice e diretta dal ‘buon governo’. Questa facile constatazione ha fatto sì che una parte significativa del tempo sia dedicata, almeno in Italia,  allo sforzo  di modificare le regole introducendo leggi (o alchimie) elettorali che consentono di rivincere, o almeno di perdere in modo tale da condizionare in maniera pesante i vincitori. Il fatto che, da una quindicina di  anni, la vita politica italiana sia dominata da una discussione, a tempo indeterminato, sulla riforma elettorale è, in se stesso, un segno patologico di primaria grandezza. Anche la politica ha il suo doping: con il ricorso a esso si cerca di trasformare in potenziali vincitori chi, in una situazione normale, avrebbe imboccato da tempo il viale del tramonto.

La gare sportive elettorali dovrebbero essere simili alla ginnastica e al pattinaggio artistico. Grazia e armonia c’entrano poco; tuttavia rimane il fatto che sono solo i giudici e non altri a stabilire il vincitore. L’esito è nelle mani del corpo elettorale che stabilisce la qualità degli atleti e degli esercizi proposti (anche se questi ultimi sono ancora  per lo più solo sulla carta, programmi). Il presupposto della democrazia è che i giudici siano, per definizione, competenti, capaci e imparziali (nel senso che il loro voto non sia mosso da secondi fini, per esempio di tipo clientelare). Il dramma delle democrazie è che nessuno può né garantire, né confutare  la validità di questa premessa. Nessuno  è in grado di sostenere che ogni elettore sia nelle condizioni di esprimere un voto maturo e consapevole e nessuno osa, giustamente, abdicare alla regola ‘una testa un voto’.

Come da sempre hanno affermato i politici più responsabili, la vera crescita democratica sta in un continuo educare ed educarsi alla democrazia. Inutile dire che entrambe le attività si svolgono fuori della cabina elettorale. Tuttavia un modo per farlo in relazione all’esercizio del diritto di voto è affermare la sostanziale stabilità delle regole elettorali. Se ad ogni gara mutassero i coefficienti di difficoltà di un tuffo carpiato gli esiti delle competizioni sarebbero pericolosamente aleatori. Tutti sanno, in teoria, la via da seguire: bisogna stabilire leggi elettorali in base alle quali chi vince possa effettivamente governare. Tuttavia questo sospirato esito avrà un senso effettivo solo quando la vittoria non sarà considerata la meta ma un mezzo per raggiungere un fine. Lo scopo di vincere è l’esercizio di un governo della nazione fatto nell’interesse generale. Si potranno e dovranno valutare e contestare le misure specifiche prese dal governo in carica, ma l’intenzione di fondo dovrebbe essere, di fatto, fuori discussione.  L’educazione alla democrazia sarà consolidata solo quando l’elettore, all’atto di deporre la propria scheda, avrà la ragionevole fiducia di contribuire a decidere i futuri governanti  non già solo  i prossimi vincitori.                                                           

  Piero Stefani

163 – La democrazia sportiva (17.06.07)ultima modifica: 2007-06-16T11:00:00+02:00da piero-stefani
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