162 – La storia dei simboli religiosi (10.06.07)

Il pensiero della settimana, n. 162

 

I simboli religiosi hanno una storia. Eppure, quando li si considera nella loro funzione consueta, divengono facilmente degli assoluti. Il fatto dipende, in larga misura, dalla funzione loro assegnata. Essi devono rappresentare un immediato riferimento collettivo identificante per tutti i membri della comunità religiosa di appartenenza: è perciò rischioso renderli complessi e sfumati. La loro efficacia dipende, infatti, dalla convinzione che da sempre le cose stiano, in sostanza, nei termini ora prospettati. Considerazioni analoghe valgono anche per la percezione stando alla quale il potenziamento dei simboli avviene spesso al fine di marcare una distinzione (o una contrapposizione) in contesti contraddistinti dal pluralismo religioso. Ciò non significa presumere che qui si trovi la ragione univoca del sorgere del simbolo. Il discorso è altro: a mutare sono gli usi e, in parte, i significati affidati agli oggetti simbolici.

Sulla facciata e negli interni di molte cattedrali medievali e persino su alcune cattedre episcopali (per es. ad Anagni) è abbastanza frequente imbattersi in stelle di Davide. Il particolare suscita curiosità e, in parte, sconcerto nei visitatori dominati dalla precomprensione secondo cui quello sarebbe un segno per eccellenza ebraico. Dietro all’immagine non c’è però alcuno spirito ecumenico ante litteram. Il motivo è molto semplice: a quell’epoca la stella davidica non era percepita come un simbolo tipicamente ebraico. Tanto i cristiani quanto gli ebrei la potevano impiegare nei rispettivi contesti. Anche quando il concilio Lateranense IV del 1215 impose agli ebrei di portare un segno di riconoscimento, nessuno pensò alla stella. Secondo le aree geografiche, si ricorse a  rotelle di stoffa da applicare sugli abiti o a cappelli di foggia particolare.

Come hanno comprovato le ricerche del grande Gershom Scholem, fu solo nel XVIII secolo, quando in alcuni ambienti ebraici cominciavano a penetrare le prime istanze dell’Illuminismo, che il Magen David (alla lettera «scudo di Davide») divenne simbolo riassuntivo dell’intero ebraismo. Ciò ebbe luogo per la necessità di cercare un’immagine univoca che potesse, in sede pubblica, demarcare la propria differenza rispetto al segno cristiano della croce. Non è dunque un paradosso sostenere che, da un punto di vista culturale, alla spalle del potenziamento del simbolo ebraico ci sia il cristianesimo.

In seguito Otto e Novecento hanno fornito contributi assai rilevanti al rafforzamento del ruolo simbolico affidato alla stella di Davide. Innanzitutto vi è stata la dinamica interna legata al sionismo. La vicenda è resa universalmente evidente dall’attuale bandiera israeliana, frutto di un incrocio tra il mantello di preghiera ebraico (pezzo di stoffa bianco con righe blu ai lati) e  il Magen David. In secondo luogo vi fu la scelta discriminatoria compiuta dai nazisti di imporre sull’abito degli ebrei la stella. I due massimi eventi della storia ebraica del XX sec., la Shoah e lo Stato d’Israele, hanno perciò contribuito in modo determinante a rendere irrevocabile un segno che trova assai più nella modernità che nei fondamenti antichi la ragione della sua universale riconoscibilità. Chi indossa in pubblico un segno del genere, per esempio attraverso il pendaglietto di una collana, veicola – in genere inconsapevolmente – tutta questa storia. Non solo si dichiara ebreo  (o simpatizzante con gli ebrei), ma indica anche (almeno implicitamente) che l’identità ebraica è frutto di un processo plurisecolare. Se indossa la stella di Davide – e non ci sono motivi per non farlo – in un luogo deputato alla trasmissione della cultura come la scuola, quei dati impliciti dovrebbero diventar occasione per riflessioni esplicite: essi sono frutto di una storia e non già solo simboli di un’appartenenza. 

Il modello di ‘laicità ridotta’ alla francese pecca non solo sul piano dei diritti personali, ma anche su quello culturale. Vietare di indossare simboli religiosi per affermare l’uguaglianza non porta lontano. Come sempre, il laicismo ha bisogno di irrigidire le appartenenze religiose altrui. Per espungere i simboli necessita di renderli in modo compatto segno di un’adesione confessionale. In tal modo il laicismo assume, dall’altro lato della barricata, lo stesso linguaggio delle componenti integriste o fondamentaliste. Esclusioni e rivendicazioni si sostengono a vicenda. Colte in quest’ottica, le vicende legate allo chador sono di un’evidenza palmare. La proibizione tende a diffondere simbolizzazioni contrappositive che sarebbero più morbide se avessero modo di esprimersi liberamente. Anzi, esse diverrebbero ancor più costruttive se fossero pubblicamente invitate a dar ragione di loro stesse. Come è ormai noto, anche il velo musulmano non è dotato di alcun fondamento originario: il Corano non lo prescrive. La sua esistenza e le sue fogge si spiegano, tanto nel passato quanto nel presente, solo in virtù di un incrocio tra l’islam e le culture. Se, a iniziare dalla scuola, si mettesse a tema tutto ciò, le spinte estremistiche sarebbero contrastate su un terreno rispetto al quale le loro armi sono per lo più spuntate.

In Italia oggi il confronto decisivo non avviene sul terreno dello scontro antitetico, eppur solidale, tra integrismo e laicismo. Lo spartiacque risolutivo si pone tra l’accettazione e il rifiuto di impiegare simboli religiosi come  segni civili. Stando così le cose, appare scontato che gli schieramenti siano trasversali sia tra i credenti sia tra quelli che (per mancanza di un termine meno equivoco) si è costretti a chiamare laici. Appaiono  invece meno ovvie le motivazioni addotte da un organo super partes come il Consiglio di Stato per respingere l’ipotesi di abrogazione dei regi decreti dai quali dipende, tuttora, l’ostensione del crocifisso nelle scuole. In particolare con due pareri (27 aprile 1988, n. 63 e 15 febbraio 2006) il Consiglio ha ritenuto che il crocifisso costituisca «anzitutto un simbolo storico-culturale; esso rappresenta un segno di identificazione nazionale e costituisce, insieme ad altre forme di vita collettiva e di pensiero, uno dei percorsi di formazione del nostro Paese e in genere di gran parte dell’Europa». Per il Consiglio di Stato, inoltre, «nell’attuale realtà sociale, il crocifisso (dovrebbe) essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma come simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche di laicità dello Stato, che trovano espresso riconoscimento nella nostra Carta costituzionale». Il percorso espresso in questi termini è l’esatto opposto di quello auspicabile. Vale a dire, più che prestare attenzione al fatto che pure i simboli religiosi hanno una storia, qui si imbocca la via opposta di considerare un simbolo religioso, assunto in astratto, come  segno della storia e della civiltà nazionali..

Secondo la giurisprudenza amministrativa, come ha giustamente osservato Alessandro Ferrari, il crocifisso non sarebbe più un semplice arredo (così come previsto dai regi decreti). Esso, perdendo il suo valore di simbolo proprio di una specifica confessione religiosa, si sarebbe infatti trasformato in segno di civiltà e di cultura liberamente utilizzabile dalle istituzioni ad emblema dello Stato-comunità. «La scelta – conclude Ferrari – è, sotto molti profili, discutibile. Ciò che è più importante, tuttavia, è valutare consapevolmente i limiti e le opportunità, per una società multiculturale, di un modello di integrazione fondato più sulla condivisione di un’identità di tipo religioso-culturale che sui diritti garantiti dai circuiti della legittimazione politica».

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

162 – La storia dei simboli religiosi (10.06.07)ultima modifica: 2007-06-09T11:05:00+02:00da piero-stefani
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