161 – Attesa e incontro (o delle stimmate di Sergio Quinzio) (03.06.07)

Il pensiero della settimana, n. 161

 

Se l’attesa è autentica, quando il volto desiderato compare, l’intensità dell’incontro prevale sull’istanza di chiedere ragione della lontananza patita. Mentre nella solitudine si aspettava il ritorno della persona amata affioravano le domande sui motivi del ritardo, sulle sue e nostre responsabilità relative a quella lontananza. Se i giorni si succedono ai giorni è impossibile reprimere il dubbio che l’abbraccio tanto atteso non giunga mai. Allora l’angoscia riempie l’animo e gli interrogativi affollano la mente. La perdita può essere definitiva e la ferita diviene rimarginabile solo per la via, a un tempo blanda e brutale, dell’amputazione del desiderio. Ma se, mentre si scruta l’orizzonte, si vede l’atteso avanzare verso di noi si depone ogni domanda e gli si corre incontro. La festa prevale sul chiedere ragione. La salvezza di quanto perduto fa porre in un angolo la volontà di esigere spiegazione di una troppo lunga assenza. Il riscatto della sofferenza vince sull’imputazione della colpa.

Forse, con il trascorrere del tempo, tornerà l’assillo di chiedere all’altro di dar conto del suo comportamento. L’atto è buono se mosso da preoccupazione sincera, spurio se alimentato dal rancore. Tuttavia, in quest’ultimo caso, è probabile che più di un’ombra insidiasse già la gioia dell’abbraccio. Anche  nel momento del ritrovarsi le mani erano un poco trattenute; già allora rigirate in parte verso se stessi e non solo protese verso l’altro. Il cuore non si era tutto sciolto, nelle sue fibre restavano grumi. Non si percepiva fino in fondo la grandezza del fatto che quanto avrebbe potuto svanire per sempre era stato sottratto al nulla.

Chi si era perduto? La risposta più vera non giace in nessuno dei due estremi. Non si trova né in se stessi, né nell’altro. Sottolineare soprattutto quanto ci manca significa guardare a se stessi. In un certo senso ciò vale anche se, in modo aperto o implicito, si ritiene che l’altro si sia smarrito in virtù del fatto di essersi allontanato da noi. La perdita è vera quando è colta da entrambi le parti. Quanto è venuto meno è la relazione che dice il bisogno l’uno dell’altro. Quanto si ritrova è l’incontro. L’abbraccio allora sigilla un evento che segna il simultaneo ritrovarsi dei due.

Se chi attende è il Padre vengono in mente termini come conversione, pentimento, teshuvà (‘ritorno’); altre sono, però,  le parole se l’atto di aspettare è visto dalla parte del credente: supplica, invocazione, preghiera, grido. Che Dio e uomo siano entrambi presentati in attesa è uno dei vertici della rivelazione biblica. Ciò rende lancinante, nel lungo tempo della separazione, la domanda del perché l’incontro, tanto desiderato da entrambi, non ha luogo o, se avviene, al più si manifesta come un rapido, fuggevole scorgersi tra la folla, situazione che, a un tempo,  comprova  l’esistenza dell’altro e ne conferma la lontananza. Le aggrovigliate vicende del pensiero (e in parte le mode culturali) hanno di nuovo fatto conoscere, in un raggio relativamente vasto, il termine neotestamentario katechon «quel che trattiene» (2 Ts 2,6). Senza negare le  ripercussioni politiche dell’espressione, occorre ribadire che, nell’ambito della supplica, della preghiera e del grido, l’ostacolo che impedisce ai due, protesi l’uno verso l’altro, di incontrarsi può essere colto solo nei termini di mistero di iniquità  (2 Ts  2,7). Vi è un muro ancora non crollato. Dopo la venuta di Gesù cielo e terra restano separati anche se non immemori l’uno dell’altra. La nuova Gerusalemme non è ancora scesa e l’Agnello non ne è ancora il centro (cfr. Ap 21,22-23).

Quando l’attesa è posta sulla bocca dei credenti in Gesù Cristo l’espressione più propria è: «Maranà tha, vieni o Signore!» (1 Cor 16,22). L’uomo non è stato in grado di reggere per secoli il peso di questo grido. Forse è possibile che ciò avvenga da parte del Figlio dell’uomo seduto nel suo esilico regno dei cieli. Forse in questa sanguinante attesa si trova il senso più autentico del detto di Pascal secondo cui Gesù è in agonia fino alla fine dei tempi. I credenti, chiamati a vivere sulla terra, non sono nelle condizioni di  tenere desto quotidianamente lo strazio. La ‘distrazione’ fa parte della loro antropologia. Per loro è divenuto a poco a poco fatale imboccare la via, a un tempo blanda e brutale, dell’amputazione del desiderio. Un modo per farlo è stato rendere formula liturgica il Marana tha. Si ripete «nell’attesa della tua venuta», ma l’accento batte su una presenza detta reale. Così è. Ma è reale al pari dello sguardo scambiato tra i due in mezzo alla folla: comprova  l’esistenza, conferma la lontananza, può riaccendere il desiderio senza avere in se stesso la forza di soddisfarlo.

Piero Stefani

161 – Attesa e incontro (o delle stimmate di Sergio Quinzio) (03.06.07)ultima modifica: 2007-06-02T11:10:00+02:00da piero-stefani
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