143 – I poveri hanno il diritto di morire (28.01.07)

Il pensiero della settimana, n. 143.

 

Nel corso di un’omelia un parroco racconta, con giusto sdegno, questo episodio: vi è una suora di clausura molto anziana ricoverata in una clinica diventata per molti, nonostante il nome (beffardo) di Salus, squallida anticamera della morte; la religiosa prega Gesù perché venga presto a prenderla con sé; ma viene rimproverata perché, le  si dice, la vita è un dono e non si deve invocare la morte. Paolo, rivolto al suo Signore, anelava, con parole entrate nella storia della mistica, a essere dissolto per essere con Cristo (Fil 1,21); S. Teresa d’Avila affermava di sperare in una vita così alta che moriva perché non moriva. La preghiera dell’anonima suora è forse più debole, fiacca; forse, più che dagli slanci verso l’eterno, è alimentata dal desiderio di uscire dall’umiliazione presente. Tuttavia non chiede di smettere di soffrire, domanda che il Signore la venga a prendere e trova come risposta parole ispirate all’inedita e imperante sacralizzazione del biologico propria del cattolicesimo odierno.

Nella sua spietatezza la replica svela quanto sta dietro l’attuale esaltazione della vita terrena vista come dono ad oltranza: una radicale, per quanto dissimulata, sfiducia di poter essere, dopo la morte, accolti dall’abbraccio di Dio in virtù della resurrezione della carne. L’evangelo si è diffuso nel mondo e nei secoli affermando che il dono definitivo è una vita che non ha fine, non quella destinata a essere corrosa dalla morte. Il cristianesimo muore, nel presente, trasformandosi in etica biologistica. La riduzione della fede a morale è una forma di secolarizzazione mascherata sotto i panni della devozione. Da parte di chi la propone l’intento più evidente è di ritagliarsi un angolino per avere ancora voce in capitolo nella cosa pubblica. La salvezza eterna della persona importa assai meno, su di essa non è dato legiferare.

Anche se si decidesse di accettare le regole della partita in corso e si optasse per muoversi sul piano etico, bisognerebbe concludere che si tratta di morale angusta e meschina. Di recente il card. Martini ha scritto parole che hanno dalla loro il sigillo dell’ovvietà (cf. il Domenicale del Sole-24 ore del 21 gennaio u.s.). Dagli uni e dagli altri sono state prese per eccezionali. Fatto già di per sé indice di una profonda e diffusa patologia spirituale. In data 23 gennaio Il Corriere della sera (feudo dei teo-con  e del livore antislamico ingentilito dai garbati moralismi di Claudio Magris) dedica un’intera pagina alla replica a Martini di mons. Sgreccia (Presidente dalla Pontifica Accademia Pro Vita). Il prelato ricorre a un linguaggio astratto che bada ai principi  e calpesta il vissuto. Siamo obbligati a riportarne un ampio stralcio: «Ci può essere una terapia che in se stessa risulta proporzionata dal punto di vista medico, ma che il singolo paziente giudica come straordinaria e non appropriata alle sue condizioni. E, si badi bene, ciò che è straordinario, non è moralmente proibito, bensì soltanto non obbligatorio. Si può dare il caso di un intervento costoso oppure rischioso per un determinato soggetto, che pur essendo medicalmente proporzionato, non è sopportabile da quel soggetto, o non lo è più ad un certo momento, per situazioni di carattere personale […] In sintesi sono due i criteri che vanno coniugati: quando si tratta di terapie proporzionate (dal punto di vista medico) e ordinarie (dal punto di vista del paziente), c’è l’obbligo morale di offrirle e accettarle (a parte la possibilità giuridica di rifiutarle); circa le terapie sproporzionate (ordinarie o straordinarie che siano), sussiste il dovere etico di rifiutarle, ordinariamente; per quanto riguarda poi le terapie medicalmente proporzionate, ma che risultassero sproporzionate per il paziente, egli non sarà moralmente obbligato a sottoporvisi, ma potrà lecitamente farlo se lo decide: l’offerta e l’accettazione dipendono dalla matura e prudente scelta del paziente».

L’introduzione in questo ragionamento di una variabile economica ne smaschera tutta l’inconsistenza, o meglio l’empietà. Tutti sono moralmente obbligati a sottoporsi a interventi medici proporzionati tranne coloro che sono, soggettivamente, nelle condizioni di giudicarli, in modo ponderato, sproporzionati. Una variabile che li rende tali è che siano costosi. In altre parole, i poveri hanno il diritto di morire (o piuttosto sono costretti a farlo). Il valore assoluto della vita umana dipende, quindi, dall’iniqua distribuzione delle risorse, risanarla non è giudicato obbligo morale, tanto «i poveri li avrete sempre con voi». Sgreccia ben si guarda dall’affermare che è dovere sociale mettere chi non ha risorse nelle condizioni di possederle per avere salva la vita grazie a un intervento «medicalmente proporzionato»; al contrario, egli si limita a sostenere che non è moralmente colpevole se lo rifiuta. Ogni commento è superfluo.

La preoccupazione cattolica rivolta a salvaguardare la propria posizione nella società ha ormai scavalcato anche il confine della morte: dai moribondi si estende ai funerali. Lo ha  fatto sul fronte del rifiuto (come è avvenuto nel caso di Welby), ma, a volte, lo compie anche nel caso della celebrazione. A Ferrara se ne è avuto, di recente, un tristissimo esempio nell’omelia pronunciata dal vescovo, Mons. Rabitti, ai funerali di don Franco Patruno: della vita eterna si è riusciti a parlare, in pratica, solo in maniera lieve, quasi per celia immaginando il defunto che racconta aneddoti a Dio, mentre grande e indebito spazio è stato riservato alla difesa di alcuni comportamenti (incerti e pavidi) assunti dalla dirigenza della Chiesa ferrarese.

Gli elogi funebri sono un genere letterario. Sono accettabili nel contesto civile o della religione civile, stridono invece nell’ambito della fede. Dio ci salva nelle nostre miserie non nelle nostre pseudograndezze. La vera pietas sta nell’affidare, anche senza parole, alla misericordia del Signore tutto quanto ha segnato la vita di una persona in quello che ha avuto di nobile e di quello che ha avuto di meschino. Dirne solo una parte significa guardare al mondo, non a Dio.

Piero Stefani

Postscriptum

Chi legge questa rubrica sa che considero l’oggettività dello scrivere esigenza imprescindibile per chi sceglie di divulgare i propri pensieri. Non parlo perciò mai direttamente di me stesso. Non recederò da questa linea. Oggi faccio però un’eccezione. Credo che Gesù Cristo sia più grande delle Chiese e Dio delle religioni.  Uno dei motivi, e non dei meno importanti, che mi inducono a rimanere entro la Chiesa cattolica è di non lasciare ancor più soli amici che patiscono la soffocante chiusura propria di tanta parte dell’attuale cattolicesimo italiano. Ciò vale anche a parti capovolte: la loro presenza mi rende meno solo e di ciò sono  loro debitore per tutta la vita.

143 – I poveri hanno il diritto di morire (28.01.07)ultima modifica: 2007-01-27T12:40:00+01:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo