140 – Conversazione sul far della notte (07.01.07)

Il pensiero della settimana, n. 140

 

   L’aria si era fatta fresca, ma il cielo era così terso e il vento tanto leggero che i tre decisero di continuare a stare all’aperto. In realtà non si preoccupavano un granché né della temperatura, né del paesaggio. Erano presi dai loro discorsi. Parlavano di Dio. O meglio, discutevano del bisogno che  avvertiamo di lui. Uno di loro aveva avanzato il paragone che si era rivelato la guida di tutto il discorso: la persona umana è come un bambino che piange perché ha fame e non sa se qualcuno gli darà il latte; chi ha fede pensa che, prima o poi, incontrerà la divina mammella; chi non ce l’ha ritiene che il digiuno si prolungherà per sempre. La non credenza. dissero all’unisono,  è una scelta ben comprensibile: se Dio esiste non ha reso facile il credere in lui. Il mondo è pieno di realtà tali da convincersi che molte cose si spiegherebbero meglio senza ricorrere a Dio. Tanti sono costretti a gridare: «Perché taci? dove sei? perché ci abbandoni e non vieni in nostro soccorso?». Si tratta di domande che troverebbero una risposta molto semplice: Dio semplicemente non c’è. Perché non la si sottoscrive in massa? Per via, affermarono in due, del bisogno che avvertiamo di lui. Sì, ma la fame di lui esiste o è semplice inganno? «Le grida del bambino erano certezza e non credenza», dissero senza esitazione,

L’altro, però, sosteneva che nella vita psichica si può fare quanto non concesso in quella fisica: proclamare l’illusorietà della fame. Dichiarare che l’unica certezza esistente è il bisogno di cibo e non il pane che sazia la fame significa consegnare tutta la nostra esistenza al tormento di un desiderio inappagato. Sostenere che la prova di Dio è la nostra sofferenza per la sua assenza è un’affermazione degna di un contorsionista spirituale: il desiderio di volare non fa spuntare le ali sulle nostre spalle. Bisogna accettare la realtà così com’è: tutto quanto esiste, vita compresa, è sorto dall’azione combinata di caso e necessità. Quando si muore non c’è più nulla o meglio, semplicemente, non ci siamo più noi.

Gli altri due compresero il ragionamento. Si appoggiavano però ad altre esperienze, umanamente innegabili. Quando lo scorrere dell’esistenza è normale e ripetitivo, quando ci si alza, si lavora, si mangia, si va a letto, persino si fanno, per abitudine, le consuete pratiche religiose, la fame spirituale si estingue da sé. Non avvertiamo né turbamenti, né sussulti. Tuttavia se, per un motivo qualsiasi, si spezza il fluire, allora nel nostro animo sorgono domande del tipo:  «chi sono io? chi sei tu?», «perché mi sei stato/a tolto/a?», «perché queste cose capitano a te e non a me o a me e non a te?», «cosa c’è dopo la linea dell’orizzonte e dopo l’altro orizzonte che da quella si vede?», «perché l’essere e non il nulla?», «perché mai ci nasce dentro questo inesauribile, inappagato bisogno di interrogare la realtà?». Almeno in quei frangenti il senso del mistero è un dato, non un inganno. Si può affermare che esso si esaurisce in se stesso, ma è impossibile negarne l’esistenza. Misurato sul metro della risposta è un vano macinare acqua; soppesato sul piatto della domanda ha un gran peso. Abdicare al senso del mistero comporta amputare con violenza quanto c’è di più propriamente umano.

 «Sì, possiamo ben concederti – aggiunsero – che queste esperienze provano la nostra fame, mentre non garantiscono l’esistenza del cibo. Tuttavia ridurle a illusioni non comporta forse far violenza alla nostra mente, alla nostra coscienza, al nostro cuore?»

«Sì, forse. Questo tormento senza risposta mi sembra però prova più l’inesistenza di Dio che il suo esserci. Se ci fosse, perché ci avrebbe consegnati a questa implacabile crisi di astinenza? Ancor peggio, se si fosse fatto sentire qualche volta, se ci avesse dato qualche “dose” della sua presenza e poi fosse andato via lasciandoci nel bisogno, come potremmo credere nella bontà di questo divino spacciatore?».

Nel frattempo le ombre si erano allungate per poi, a poco a poco, scomparire avvolte nelle tenebre. Alzarono gli occhi e videro la volta celeste riempirsi di stelle. Il sole era tramontato da tempo, la luna non ancora sorta. Sulla terra dominavano le tenebre, in cielo vi erano piccoli bagliori di luce.

«Se mi guardo dentro capisco i vostri discorsi. Se oltre al nostro tormento o al nostro senso di stupore  ci fosse un segno che venisse dal di fuori, mi arrischierei a seguirlo. Potrei prenderlo per qualcosa di diverso dalla proiezione dei mie desideri, dalla oggettivazione dei miei bisogni. Ancor più di una risposta sarebbe una chiamata. Oserei seguire quel segno anche se non so dove mi conduce».

Vi fu un bagliore. Nel cielo apparve, repentina, una cometa grande e luminosa che si muoveva verso occidente. Uno di loro disse: «Seguiamola» e gli altri due risposero «sì». La leggenda vuole che i loro nomi fossero Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

Molti secoli dopo un grande scrittore avrebbe vergato questo aforisma: «L’uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa d’indistruttibile dentro di sé, mentre sia l’indistruttibile sia la fiducia possono restargli costantemente nascosti. Una delle possibilità di esprimersi di questo permanere nascosti è la fede in un Dio personale» (F. Kafka).

Piero Stefani

140 – Conversazione sul far della notte (07.01.07)ultima modifica: 2007-01-06T12:55:00+01:00da piero-stefani
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