138 – La prossimità di Dio (24.12.06)

Il pensiero della settimana,  n. 138.

 

«O Dio,  tu sei il mio Dio,  dall’aurora ti cerco,

di te ha sete l’anima mia,

a te anela la mia carne,

come terra deserta,

arida, senz’acqua» (Sal 63,2).

Il salmo afferma l’umano desiderio di Dio. Vita (nefesh, anima) e fragilità (carne, basar) si danno la mano per incamminarsi verso Dio. Qui è detta la cifra di una inesausta ricerca che, da sempre, gli esseri umani fanno per giungere a Colui che non hanno né visto, né toccato. Hanno bisogno di lui per far sì che nella loro aridità, consegnata alla morte, spuntino germi di vita. Le creature non anelano verso il Dio immenso e infinito creatore del tutto; esse ricercano sempre il «mio Dio». In questa espressione l’aggettivo possessivo indica quel che manca più che quanto si tiene in pugno. Il «mio» attesta non una proprietà, ma una relazione, presente o assente, ricordata o sperata. Dio può legarsi a me, mentre io divento compiutamente me stesso solo quando mi vincolo a Lui che non vedo e non tocco.

La grandezza di Dio si trova non nell’essere il Signore del tutto, ma nel diventare il prossimo di ciascuno. Solo chi è infinito può essere intimo a miliardi di creature e conoscere quanto sta chiuso nel loro cuore: «In verità Noi creammo l’uomo, e sappiamo quel che gli sussurra l’anima dentro, e siamo a lui più vicini che la vena grande del collo» (Corano 50,16). L’uomo a cui allude questo verso coranico non è un soggetto universale e  astratto, al contrario è un individuo concreto. Il dittatore può parlare alle masse, che per lui divengono un tutto indistinto, non così l’amico. Secondo un’espressione cara all’Oriente cristiano Dio è amante dell’uomo. Lo è perché può farsi prossimo a ciascuno e perché dà a ognuno la possibilità di affermare: «Dio, tu sei il mio Dio».

Il dittatore, rispetto alla sua massa, ha l’aspirazione  perversa di riuscire a scrutare i cuori e di catturare l’intimità delle coscienze. In larga misura cerca di farlo ricorrendo alla prepotenza della sua immagine: i suoi ritratti devono essere ovunque, i suoi sguardi devono scrutare ognuno. Soprattutto, egli sfodera l’arma dell’omogeneità. I singoli devono diventare un tutto. L’uniformità è un obbligo e la pluralità un male supremo. I potenti difensori di Dio che abitano la storia hanno, quasi sempre,  presentata l’immagine divina come quella del sommo Dittatore. Al suo cospetto tutto e tutti dovrebbe essere uniformi. La differenza allora diviene eresia. La parte di verità di questa affermazione è mettere in evidenza che  nessuno può essere davvero metro a se stesso (soggettivismo); ma la sua, ben maggiore, parte di falsità sta nel negare la possibilità che Dio divenga «il mio Dio». Per essa infatti Dio deve essere semplicemente Dio. Per gli apologeti l’immagine di Dio è potente e uniformante. Essi, in definitiva, negano a Dio l’umile infinità di stare sulle soglie del cuore di ciascuno, gli vietano di attendere che gli si apra la porta e inizi un colloquio unico e irripetibile (cfr. Ap 3,20).

Dio è al di là delle limitazioni del tempo e dello spazio non perché le ignori ma perché le compenetra tutte.  Questa infinità potrebbe esprimersi mettendo sulle labbra divine le parole, capovolte, del salmo: «O uomo tu sei il mio uomo, ti cerco». Per la fede cristiana il desiderio di Dio di farsi prossimo alle sue creature giunge fino alla incarnazione. Grazie a essa colui che non si può né vedere, né toccare è divenuto visibile e palpabile. Così facendo il Figlio di Dio ha assunto le limitazioni del tempo e dello spazio. Alcuni occhi l’hanno scorto e alcune mani l’hanno toccato (cfr. 1 Gv 1,1). Non sono i nostri. Perché Dio in Gesù Cristo possa farsi prossimo a ciascuno, compenetrando ogni spazio e ogni tempo,  il Figlio ha dovuto, di nuovo, essere rapito ai nostri occhi (cfr. At  1,9-11)  ed essere presente come Spirito (cfr. Rm 8,  23-27).

L’aver assunto da parte del Verbo la limitazione dello spazio e del tempo, ha obbligato ad affidarsi, per dire la prossimità di Dio, all’annuncio e alla fede nata dall’ascolto (cfr. Rm 10, 14-15). In questo orizzonte diviene più netta la distinzione tra credenti e non credenti. Il Dio che si è fatto  prossimo all’uomo fino al punto di diventare anche lui creatura rischia, ora, di essere presentato più vicino agli uni che agli altri. Chi ha fede nella sua venuta nella carne, ora  lo sente più prossimo; eppure  il suo cuore avverte anche il desiderio di vederne il volto e di scorgerne la carne. Non solo, in lui sorge il pungolo di sapere come Dio possa essere vicino anche a coloro che non credono in quella venuta. Spesso allora ci si appella a quanto di Dio è tuttora invisibile: i semi del Verbo non ancora incarnato, lo Spirito che soffia dove vuole (Gv  3,6-8). Finora neppure Dio è riuscito a portare a compimento il suo desiderio, nato nell’aurora del tempo, di ricercare e incontrare ognuna delle sue creature. Come nel Cantico dei cantici, a ogni incontro succede tuttora una nuova ricerca.

Piero Stefani

138 – La prossimità di Dio (24.12.06)ultima modifica: 2006-12-23T13:05:00+01:00da piero-stefani
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