134 – Da una stagione all’altra (26.11.06)

Il pensiero della settimana, n. 134

 

  Aldo aveva l’abitudine, quando giungeva per lavoro in qualche città, di prendersi del tempo. Non sempre gli riusciva, ma, se poteva, si avviava a piedi. Dopo aver dato una sommaria occhiata alla pianta, si dirigeva nella direzione prestabilita, senza però preoccuparsi dei dettagli. A lui bastava giungere in zona, non importava far il percorso più breve. Anzi, seguire un itinerario un po’ tortuoso, accorgersi di aver sbagliato e tornare sui propri passi faceva parte del gioco. Quei momenti erano destinati soprattutto a osservare. Cominciava con le targhe delle strade, ma poi si rivolgeva alle case, ai portoni, ai passanti. Faceva quello che è precluso quando si ha fretta. Riusciva perciò a guardare la realtà con una dose di distacco sufficiente per suscitare alcune riflessioni, per sollevare qualche interrogativo su di sé e sugli altri.

Era in questa circostanze che Aldo avvertiva in modo particolare i cambi di stagione. Per il suo modo di vivere, essi non erano legati alla campagna, alla collina o alla montagna  e tanto meno ai paesi di mare gremiti d’estate e desolati d’inverno. Il contrassegno del ciclo stagionale erano, fuori, i viali, i giardini e i muri con i rampicanti; dentro, il suo corpo che aveva caldo o freddo, avvertiva l’umido o l’afa, la spossatezza o l’irrigidimento. C’era però un interno più intimo di quello corporeo: Aldo coglieva il passaggio delle stagioni con l’anima. Mentre nel tardo autunno i suoi piedi calpestavano le foglie fradice, o nel maggio odoroso le sue narici avvertivano un misto di profumi e di scarichi di automobile, o, quando, durante l’inverno sentiva il freddo entrare nelle ossa o allorché, in piena estate, era assalito da una calda liquidità, i suoi pensieri si fermavano, immancabilmente, sullo scorrere del tempo. A indurre la sua mente a solcare e risolcare queste strade interiori non erano solo il buio che in dicembre ti coglie repentino nel primo pomeriggio, o  l’ostinato baluginare del crepuscolo estivo: in qualsiasi stagione quei frammenti di natura inseriti nel contesto urbano lo portavano a riflettere sulla presenza di un ciclo ininterrotto di rinascite e morti.

Con l’abitudine il suo sguardo era diventato sintetico: quando vedeva erompere, improvvise, le gemme dal ramo secco pensava all’accartocciarsi delle foglie, i fiori gli richiamavano già i frutti e viceversa. Un giorno lesse in un libro un’annotazione  di stampo autobiografico colta da un’angolatura opposta alla sua. Si trattava di un uomo, vissuto quasi sempre in città, che i casi della vita, più che la scelta, avevano portato ad abitare in campagna. Lì era stato invaso dall’implacabile trascorrere delle stagioni. Ecco come le descriveva: «Ai campi esausti, sfatti dalla fatica estiva, succedono le interminabili nebbie dell’autunno, e a questo il gelo grigio dell’inverno, e a questo il cieco e subito finito espandersi ovunque delle fioriture primaverili. Questo alternarsi è il ritorno, passivamente da subire, del sempre identico che si consuma per rigenerarsi e si rigenera per consumarsi». Finito di leggere queste righe, Aldo pensò: «È un uomo che se la piglia con il tempo perché ragiona, nei confronti di se stesso, come se lui fosse fuori dal gioco».

Fu da quel giorno che il suo occhio si volse dai viali, dai muri, dalle siepi sempre di più verso l’interiorità. A poco a poco le sua camminate non lo condussero più a osservare quanto gli stava attorno. Scrutandosi gli era sembrato di capire che pure la sua esistenza non era vincolata a regole molto diverse da quelle degli alberi. Certo l’alternarsi è più irregolare. Da sempre si dice che non ci sono più le mezze stagioni, ma da sempre si è obbligati a constatare che le giornate si allungano e si accorciano con regolarità nell’arco di 365 giorni. I tempi della vita umana non sono tanto rigidamente prefissati: una stagione può durare pochi giorni o molti anni. Del resto, una repentina gelata brucia le gemme più precoci e un tiepido autunno consente di cogliere qualche frutto anche a novembre inoltrato. Tuttavia, anche se lunga decenni, la stagione del vivere andrà, con certezza, incontro al proprio termine. E dopo? Aldo si era portato dentro a lungo questa domanda, senza trovarvi risposta. La prospettiva mutò quando la legò a un altro interrogativo simmetrico al precedente: e prima? Per lui fu come lo squarciarsi di un velo di nebbia. Colse allora che la fatica del vivere era giustificata dal suo essere un passaggio da un prima a un dopo destinato, a propria volta, a diventare un prima. Comprese che, in base alla nostra natura, non avevamo alcun diritto di chiamarci fuori dal ciclo. Gli tornò alla mente un vecchio frammento scolastico: Nietzsche e il suo eterno ritorno. Gli parve poco significativo: accettare, per trascenderlo, il perpetuo riproporsi dell’identico gli sembrò un’operazione paragonabile a quella di un uomo che vuole alzarsi tirando per il colletto della propria camicia. Ebbe una reazione differente quando il suo occhio cadde su una  locandina appesa al vetro di una porta. Si trattava di un centro buddhista che avvertiva di una prossima conversazione intitolata: «Dal samsara al nirvana». A lungo aveva considerato il «pellegrinaggio in Oriente» solo una moda culturale. Dati gli esempi che conosceva, non si era sbagliato. Li aveva quindi facilmente accantonati. Adesso, però, gli pareva necessario meditarci sopra. Era tramontato il tempo in cui tutto poteva essere risolto con una scrollata di spalle.

Piero Stefani

134 – Da una stagione all’altra (26.11.06)ultima modifica: 2006-11-25T13:25:00+01:00da piero-stefani
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