129 – Accolgo te (22.10.06)

Il pensiero della settimana, n. 129

 

     Accogliere significa volere e scegliere, ma nello stesso tempo sapere che non tutto dipende da quei due atti. Si tratta di un ricevere qualcuno o qualcosa che viene  dall’esterno. Allora ci si trova in una situazione in cui, di fronte a una determinata realtà, ci sono date solo due alternative: accettare o rifiutare. Non si può tenere per sempre sulla soglia quanto ci è offerto. All’incertezza non è dato di prolungarsi in maniera indefinita: l’uscio deve o spalancarsi o chiudersi. Né l’accoglienza sopporta il paragone con un compratore che va alla ricerca delle mercanzie più adatte scegliendo tra le molte alternative esposte sui banconi. Nell’accogliere non vi è né la molteplicità di una ricerca di quel che più ci soddisfa, né la transazione bilaterale in cui la merce è compensata dal denaro.

Chi accoglie non acquista; al contrario accetta un dono che, nel caso delle persone, può essere reciproco. Anche quando ciò avviene – ed è la possibilità massima – resta comunque ferma la clausola vincolante di non poter modificare le realtà date. Si accetta o si respinge il dono per quel che è. Non è dato preventivamente di modificarlo. Quando l’accoglienza è reciproca non si cade, però, neppure nella condizione espressa nel detto «a caval donato non si guarda in bocca». Né è  il caso di evocare regali accettati a scatola chiusa. Accogliendo una persona per quel che è si afferma infatti prima di  tutto che è un dono che essa sia. Questo atto crea un legame tanto più forte quanto più si afferma che l’«altro» anche quando è accolto, pur diventando il prossimo più prossimo, resta  una persona diversa da noi.

L’accoglimento non è una reductio ad unum. Il nuovo rito del matrimonio cattolico ha introdotto, come formula che sigilla il rito, l’espressione «accolgo te». Anche quando, secondo le parole della Genesi (2, 24), i due divengono una carne sola la duplicità non scompare. Nelle nozze vi è unione senza che vi sia confusione. Il vincolo diviene dono reciproco solo accogliendo l’irriducibilità a se stessi della persona amata .

L’autentico incontro sponsale può essere espresso riferendosi in modo libero a una  formula del concilio di Calcedonia. I Padri, per definire la persona di Gesù Cristo, affermarono che in lui le due nature, divina e umana, si congiungono senza confondersi. L’unione più profonda presuppone il mantenimento di una distinzione. Il paragone però deve arrestarsi a questa prima delle quattro modalità di unione indicate dalla dogmatica cristiana. Riformulata nei nostri termini, l’affermazione che Gesù Cristo è vero uomo e vero Dio, potrebbe essere ritrascritta così: il Verbo, incarnandosi, ha accolto in sé la natura umana per quel che è e perché è (cfr. Gv 1,14). All’unione nuziale  non si applicano, però, le altre tre qualifiche impiegate dal concilio per definire l’unione ipostatica del Figlio: immutabile, indivisa, inseparabile. L’immutabilità non è data agli esseri umani. L’indivisibilità e l’inseparabilità sono, da parte loro, conquistate giorno per giorno attraverso la conferma del dono e della presenza in esso dell’alterità. La distensione dell’esistenza suggella quanto era fin dal principio. Tuttavia è vero anche il contrario: solo la povera conferma raggiunta con fatica nella vita quotidiana dà concretezza e verità a quanto è stato affermato in principio. Forse proprio in questa luce vanno letti i passi evangelici relativi alla disputa sul ripudio (cfr. Mt 19, 1-9; Mc 10, 1-12). Per prolungare il paragone tra l’unione sposale e la persona di Gesù Cristo, si potrebbe sostenere  che solo in virtù di una vita umana percorsa fino a sprofondare nel baratro delle morte e della morte di croce Gesù è giunto, grazie all’«alterità» della resurrezione, a essere quel che era fin dal principio (cfr. Rm 1,  3-4).

«I due saranno un carne sola». In riferimento a questo versetto il grande commentatore ebraico medievale, Rashi di Troyes, non seppe ben coniugare unione e alterità. Nel suo commento alla Genesi, infatti, disse che la frase sta semplicemente a significare che «il bambino è formato per mezzo di entrambi i genitori, ed è in lui che essi diventano una carne sola». È facile comprendere che, per molti versi, si tratta di una prospettiva riduttiva e biologistica. Rimane però vero che il primato dell’accoglienza reciproca si prolunga anche nell’apertura verso  la nascita di figli scelti, perché accolti e amati per quel che sono, anzi perché sono.       

  Piero Stefani

129 – Accolgo te (22.10.06)ultima modifica: 2006-10-21T13:55:00+02:00da piero-stefani
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