116 – Lo sport al femminile (11.06.06)

Il pensiero della settimana, n. 116.

 

Lo sport moderno è anglosassone di nascita e per vari decenni è stato prevalentemente maschile. Poi, in virtù di una spinta giunta da quella stessa area del globo, si è allargato  a poco a poco anche alle donne. In tempi più recenti pure gli sport giudicati tipicamente maschili sono diventati frequentati da praticanti femminili. Ci sono ormai atlete che corrono la maratona, saltano con l’asta, incrociano i guantoni con un’avversaria, sollevano bilancieri. Tuttavia neanche in questo campo la parità è davvero conseguita. L’eco dello sport femminile  è infatti minore di quello maschile. I campionati del mondo di calcio femminile passano in pratica inosservati (molti di noi non sono neppure sicuri se ci siano o no), invece l’esistenza di quelli maschili non può essere ignorata neppure da chi si disinteressa totalmente di calcio. I campionati sono un evento globale. In barba allo scontro di civiltà, due invenzioni dell’Occidente sono diventate nel nostro mondo il linguaggio più universale e omogeneo: il calcio e la televisione. Sul fronte di queste nozze non è prevedibile alcun divorzio.

Se l’Iran vincesse i campionati del mondo il regime degli ayatollah non impedirebbe  manifestazioni di giubilo, nella sostanza,  molto simili a quelle presenti in una qualsiasi altra parte del mondo. Eppure in quell’area lo sport femminile conosce ben noti ostacoli. Tuttavia è fuori discussione che anche da noi una vittoria mondiale di una squadra «rosa» avrebbe echi molto inferiori di una maschile. Si può affermare che gli sport si dividono in tre tipologie base: di squadra, di duello e di competizione. Nella prima ci sono due gruppi che si fronteggiano, nella seconda due (o quattro) individui, nella terza vi è un lotto di partecipanti che vanno tutti nella stessa direzione o compiono tutti lo stesso esercizio. In questo ultimo caso vi è non scontro diretto, ma una classifica. L’impressione è che le grandi campionesse che assurgono a vasta popolarità si situino soprattutto nella seconda e nella terza tipologia, mentre nella prima il gap è ancora molto  sensibile. Vi sono sprinter o saltatrici, sciatrici, tenniste, schermitrici celebri, molto meno frequente  è che ci siano squadre femminili davvero popolari. Vi è una ragione per tutto ciò? Forse si potrebbe avanzare l’ipotesi secondo cui il gioco di squadra, la cui egemonia è soprattutto moderna, sia nella sua essenza una guerra simulata.

Nella partita si hanno due squadre che si fronteggiano, nella battaglia due eserciti. In entrambi i casi vi sono ruoli, movimenti coordinati, ali e centro, attacchi e difesa, strategie e tattiche. Come la battaglia non è solo un insieme di duelli individuali, così la partita non è soltanto la somma di scontri individuali. Il patriottismo è una specie di tifo bellico, mentre, quando gioca la nazionale, il tifo è una sorta di patriottismo incruento accompagnato da un turbinio di bandiere. Dal canto loro, nei derby si ripropongono le antiche fazioni della «città partita». Nell’immaginario collettivo la guerra resta un affare maschile; le soldatesse sono come le squadre femminili: ci sono ma restano, per ora, marginali. Nulla è immutabile e può essere che le faccende con il tempo mutino; tuttavia attualmente le cose sono ancora così. La sfida a due è altra cosa: non è  guerra, è duello e litigio, mentre la competizione stabilisce chi è più bravo a compiere le stesse azioni. Nell’una e nell’altra dimensione non ci sono ruoli e azioni collettive coordinate volte a sopraffare avversari anch’essi parimenti organizzati.

In modo più o meno sotterraneo il gioco di squadra può essere percepito come guerra; tuttavia (a prescindere da ciò che capita sugli spalti e sulle strade) esso non implica violenza: è una battaglia simulata. Ciò avviene sia perché ci sono regole da rispettare, sia perché si è puniti se non le si rispetta. Non c’è partita senza arbitro; mentre se c’è un arbitrato non c’è guerra, in tal caso infatti subentra una tregua. L’arbitro è il terzo che sta imparzialmente sopra i due schieramenti contrapposti. Vi è tuttavia un non piccolo «però».  Un tempo le regole della guerra prevedevano di far giungere per via diplomatica la dichiarazione di apertura delle ostilità; al giorno d’oggi le guerre si fanno invece  senza dichiararle. In modo analogo anche l’imparzialità degli arbitri e la lealtà dei contendenti sembrano essere andati nell’archivio del buon tempo passato: di attualità resta solo l’identificazione faziosa con uno dei contendenti.       

                                                               

Piero Stefani

116 – Lo sport al femminile (11.06.06)ultima modifica: 2006-06-10T15:00:00+02:00da piero-stefani
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