117 – Da Birkenau al Vaticano (18.06.06)

Il pensiero della settimana, n. 117.

 

Premessa.  Anticipo la nota in uscita sul numero di luglio di Jesus. In appendice riporto un piccolo stralcio di un articolo sui mondiali di calcio scritto dal pastore Giuseppe Platone per il numero di Riforma di questa settimana.

 

Da Birkenau al Vaticano

 

Più volte, nel corso del suo primo anno di pontificato, Benedetto XVI ha mostrato la volontà di ripercorrere le vie solcate dal suo predecessore. Questa tendenza ha trovato il proprio coronamento nel viaggio in Polonia di fine maggio interamente posto sotto l’egida di Giovanni Paolo II. Ratzinger (secondo la consuetudine di Wojtyla) ha destinato la prima udienza generale, dopo il rientro a Roma, a rievocare le tappe dell’itinerario appena concluso. Il ripercorrere, passo dopo passo, le  tappe legate alle memorie del suo predecessore ha, però, conosciuto un’interruzione nei passaggi finali del discorso destinati a evocare l’ultimo e più arduo appuntamento in terra polacca: Auschwitz-Birkenau. In Vaticano Benedetto XVI ha pronunciato le due parole, taciute nel lager, associate più di altre alla «soluzione finale»: Hitler e antisemitismo. Il particolare lascia trasparire qualche disagio. Questa tardiva integrazione sembrerebbe infatti corroborare il giudizio che pone (almeno in parte) il discorso pronunciato da Ratzinger a Birkenau nel novero delle occasioni perdute.

Certe parole Benedetto XVI avrebbe dovuto pronunciarle là. Ad Auschwitz, Ratzinger non era solo il successore del polacco Karol Wojtyla, era il primo papa tedesco a visitare il campo assurto a simbolo riassuntivo dell’intera Shoah. Questa consapevolezza, presente in tutti, è stata apertamente dichiarata anche da Ratzinger. All’inizio del suo intervento ha detto: è difficile prendere la parola in questo luogo di orrore e di crimini contro Dio e contro l’uomo ed è specialmente «opprimente per un cristiano, per un papa che proviene dalla Germania». Le frasi successive sono state solo in parte all’altezza di questa chiave ermeneutica. La mancanza è imputabile a molte ragioni, tra esse vi è la decisione, cara alle gerarchie polacche, di presentare le appartenenze dei due papi nell’ottica dell’espressione patriottica di «figlio del popolo polacco» o «tedesco». L’elemento accomunante ha così prevalso sulla ricostruzione storica.

Senza dubbio ogni criminalizzazione collettiva del popolo tedesco è palese stortura ideologica. Tuttavia il grande buco nero degli anni che vanno dal 1933 al 1945 non può essere esorcizzato soltanto in base alla motivazione, addotta da Benedetto XVI, secondo cui un gruppo criminale raggiunse il potere attraverso promesse bugiarde e con la forza del terrore e dell’intimidazione «cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato». Sarebbe stato necessario un approccio che non si limitasse a indicare l’esistenza di una parentesi criminale e irrazionale. Occorreva infatti alludere a un arco temporale e a responsabilità più ampie capaci di scavare a fondo su collusioni e ambiguità sia di lunga portata sia di breve periodo. A Benedetto XVI non era richiesto di fare lo storico; molti, sulla scorta di alcuni gesti alti del suo predecessore, attendevano, però, da lui parole in grado di attestare che la «purificazione della memoria» e la «riconciliazione» richiedono sempre prezzi da pagare anche in prima persona.

Piero Stefani

 

 

«…Ma tra i tanti programmi sviluppati dalle chiese evangeliche tedesche in questi giorni di Mondiale, che vanno dall’avere organizzato nelle comunità maxi schermi per assistere alle partite, a liturgie ecumeniche, sino a dibattiti sul senso dello sport,
spicca, tra tutte, l’iniziativa: “Fair play-fair life” (www.fairplay-fairlife.de).

Un programma che vuole mettere in luce un lato oscuro del calcio e che riguarda la stessa produzione di palloni, il cui maggior centro mondiale di fabbricazione è in Pakistan, ai confini del Kashmir: Sialkot. Una cittadina che sta crescendo tumultuosamente grazie alla confezione, a mano, dei palloni. Oltre quarantamila persone distribuite in oltre duemila botteghe in condizioni precarie coprono il 80% della produzione mondiale dei palloni. Lo sfruttamento è ai massimi livelli e
coinvolge anche i minori. Costruire un pallone di marca, per mani esperte pakistane, significa cucire 32 pezzi separati di cuoio (o altro materiale anche sintetico) per ogni
esemplare, con 750 passaggi di ago in poco più di tre ore. I più bravi fanno
quattro palloni al giorno a 40 rupie l’uno, 60 centesimi di dollaro. In Europa quel tipo di pallone può costare 99 euro. L’impegno delle chiese evangeliche, in particolare quelle della Westfalia (dove ha sede, a Herne, la centrale di Fair play-fair life), è di acquistare palloni direttamente dai produttori con garanzie di esenzione del lavoro minorile nell’osservanza di norme di sicurezza e garanzie sociali. Il gol vincente in questo caso è: spezzare le catene di una produzione infame per ridare dignità e speranza a una popolazione stritolata dai meccanismi dello sfruttamento globale. È un
programma di speranza che nasce intorno a questo mondiale. Ma non è l’unico. Si sta svolgendo una vasta azione diaconale tesa a distinguere la libera prostituzione dal suo sfruttamento. Si calcola che intorno a questo Mondiale ruotino circa quarantamila schiave del sesso, di cui non poche sono ragazze minorenni obbligate a prostituirsi sotto ricatto da parte di organizzazioni criminali.»

 

 

 

 

117 – Da Birkenau al Vaticano (18.06.06)ultima modifica: 2006-06-17T14:55:00+02:00da piero-stefani
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