114 – Un confronto (28.05.06)

Il pensiero della settimana, n. 114

 

 

Nel 2000, durante il suo pellegrinaggio in Israele che lo ha condotto a incontrare i luoghi legati alla storia delle origini cristiane, Giovanni Paolo II ha visitato un manufatto-simbolo difficile da inserire nel quadro generale dell’itinerario da lui compiuto: il Muro occidentale del tempio di Gerusalemme. Il papa, conformandosi a un noto uso ebraico, ha inserito tra le pietre un biglietto con il testo della preghiera da lui pronunciata un paio di settimane prima a S. Pietro. In essa si chiedeva perdono per il comportamento assunto dai cristiani nei confronti degli ebrei, ai quali veniva attribuita una non generica qualifica di figli di Dio. Un conto però è recitare quella preghiera nel cuore della cattolicità, tutt’altro è deporla in un posto giudicato dalla tradizionale visione antigiudaica cristiana la supposta pretesa di una maledizione che pesa sul popolo ebraico, del cui santuario non resta pietra su pietra.

Il gesto di Giovanni Paolo II, trasformando un segno di presunta superiorità spirituale in occasione di richiesta di perdono, afferma in modo inequivocabile che l’alleanza tra Dio e il popolo ebraico non è mai stata revocata. In un cero senso si potrebbe sostenere che, di fronte a quel muro, il papa ha formulato una teologia della storia gestuale, in cui l’ammissione di colpa e la richiesta di perdono potevano avvenire solo appellandosi alla logica biblica dell’alleanza. Così facendo egli ha ribadito, assieme a Paolo, che i doni e la chiamata di Dio diretti al popolo d’Israele sono senza pentimento (Rm 11,28-29). Per di più lo si affermava fuori dei propri spazi e lo si compiva assumendo una modalità di pregare non inscritta nella propria tradizione.

Nel maggio del 2006 Benedetto XVI compie un pellegrinaggio volto a incontrare i luoghi simbolici della vita del proprio predecessore. L’ombra lunga di Giovanni Paolo II è stata il grande ombrello protettivo che ha consentito al papa tedesco di essere circondato, in Polonia, da folle esultanti. Il suo primo discorso è stato rivolto al clero entro le mura delle cattedrale di Varsavia. Lì, in quello spazio tutto interno a un sottoinsieme della propria Chiesa, Ratzinger ha trattato del pentimento per le colpe passate. Il motivo che lo ha indotto a compiere questo passaggio era fortemente condizionato da recenti polemiche legate alla scoperta di frange del clero polacco compromesse con il passato regime comunista. Benedetto XVI non ha compiuto alcun gesto, ha pronunciato parole: «Papa Giovanni Paolo II, in occasione del Grande Giubileo ha più volte esortato i cristiani a fare penitenza delle infedeltà passate».  Ma anche se «nella Chiesa vi sono uomini peccatori», proprio per questo «bisogna respingere il desiderio di identificarsi soltanto con coloro che sono senza peccato. Come avrebbe potuto la Chiesa escludere dalle sue fila i peccatori?». Ed è appunto «per la loro salvezza che Gesù si è incarnato, è morto ed è risorto. Occorre perciò imparare a vivere con sincerità la penitenza cristiana». Con il praticare questa, noi «confessiamo i peccati individuali in unione con gli altri davanti a loro e a Dio. Conviene tuttavia guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi e in altre circostanze».Quel che, al contrario, occorre, è «umile sincerità» per non negare i peccati del passato «e tuttavia non indulgere a facili accuse…chiedendo perdono del male commesso nel passato dobbiamo  anche ricordare il bene compiuto con l’aiuto della grazia divina che, pur depositata in vasi di creta, ha portato frutti spesso eccellenti».

Papa propenso a parlare un linguaggio spirituale, Benedetto XVI, quando si confronta con «altri» – si tratti di comunità religiose o di peccati passati – imbocca, inconsapevolmente, il linguaggio profano che fu proprio dell’avversato illuminismo: le altre religioni diventano culture, le colpe dei cristiani sono imputabili all’«oscurità dei tempi».  Ben altro fu il modo di procedere di Alessandro Manzoni nella sua Storia della colonna infame. La vicenda della ingiusta tortura e condanna a morte di due presunti untori avvenuta nel 1630 aveva già animato lo spirito critico dell’illuminista Pietro Verri, il quale, nelle Osservazioni sulla tortura, l’aveva imputata all’«ignoranza dei tempi» e alla «barbarie della giurisprudenza». Tuttavia Manzoni, non contento di una spiegazione che attribuisce alle circostanze storiche le responsabilità personali, si sforza di mostrare, attraverso un’accurata ricostruzione documentaria, che i giudici di quell’epoca erano perfettamente nelle condizioni, partendo dalle loro stesse prassi e convinzioni, di poter stabilire la falsità delle accuse. In altri termini, la proposta manzoniana non affida ai tempi il senso della responsabilità personale. La riflessione manzoniana diviene però anche «teologica» quando afferma che se quei giudici si fossero trovati in una situazione in cui era loro impossibile non commettere errori e obbrobri ne sarebbe andata della Provvidenza. Il tragico sbaglio in questo caso sarebbe infatti imputabile non alla responsabilità umana, ma a chi guida la storia. Non si tratta di «impancarsi» per giudicare altri; quel che è in gioco è il senso della responsabilità che tocca ciascuno nel passato e nel presente. Dall’attribuire i frutti eccellenti alla grazia non si può trarre alcuna giustificazione aprioristica di chi ha dato luogo a esiti di segno opposto: «dai loro frutti li potrete riconoscere » (Mt 7,20).

Piero Stefani

114 – Un confronto (28.05.06)ultima modifica: 2006-05-27T15:11:00+02:00da piero-stefani
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