105 – I tavoli interreligiosi (26.03.06)

Il pensiero della settimana, n. 105

 

Nel 1913  un giovane praghese diciannovenne  acquistò alla stazione un biglietto per recarsi in uno sperduto villaggio galiziano. Proveniva da una famiglia ebraica tiepidamente osservante. I suoi familiari sapevano che al mondo c’è anche la religione, tuttavia accanto a essa vi sono pure molte altre cose più sostanziose e concrete. Il giovane Jiří Langer era stato però invaso dal fuoco mistico. Andava a oriente per farsi chassid. Questa esperienza è testimoniata dal suo libro Le nove porte (ed. Adelphi). Non ci interessa seguirne i percorsi. Ci basti dire che quella stranezza religiosa, all’inizio, non fu compresa da nessun membro della famiglia. Fece eccezione Julie, la vecchia donna di servizio, fervente cattolica. Aveva sempre prestato la propria opera in case ebraiche ed era lei che tutelava che si mangiasse kasher.

Da un lato persone appartenenti a fedi diverse si comprendevano anche in un tempo in cui i dialoghi interreligiosi non erano all’ordine del giorno, mentre, dall’altro, una landa di incomprensione si estendeva fra i membri della stessa fede. Il grande ruolo assunto dall’esperienza religiosa nell’incontro tra credenti sta in questa  capacità di incontrarsi nelle profondità del vissuto. Per  sentire prossimo l’altro credente non bisogna muoversi alla superficie. Non occorre neppure cercare quanto è comune annacquando in tal modo la specificità delle proprie convinzioni e della proprie pratiche. Al contrario, la comprensione vera si manifesta solo quando ognuno percorre fino in fondo il proprio cammino. I tavoli interreligiosi restano alla superficie. Il nome scelto per indicarli è adatto: in un tavolo a essere utilizzato è il piano, mentre le gambe che lo reggono sono solo strumentali. Quando si apparecchia la superficie si trascura sempre l’umile fondazione delle gambe. Nonostante i loro nomi i tavoli interreligiosi hanno poco di religioso; il loro scopo è piuttosto svolgere una funzione civile. Del resto sono voluti e proposti proprio per questo. Attualmente essi fanno perciò sempre più parte della religione civile delle società pluraliste; si tratta palesemente di casi in cui l’aggettivo prevale di gran lunga sul sostantivo.

Scrive Paul Ricoeur: «Appartenere a una tradizione religiosa è appartenere a una lingua ed è nello stesso tempo ammettere che questa lingua è la mia lingua e che non ho altro accesso al linguaggio che tale lingua. È allora un fatto, direi, di grande cultura religiosa e di grande modestia religiosa capire che il mio accesso al religioso per quanto fondamentale sia, è un accesso parziale, e che altri, per altre vie, hanno accesso a questo fondo […] Sono sulla superficie di una sfera frazionata di luoghi religiosi differenti. Se cerco di correre sulla superficie della sfera, di essere eclettico, non troverò mai l’universale religioso perché farei del sincretismo. Ma se scendo a sufficienza nelle profondità della mia tradizione, supererò i limiti della mia lingua.

Per andare verso quello che chiamerò il ‘fondamentale’, che altri raggiungono per altre vie, accorcio la distanza che mi separa dagli altri nella dimensione della profondità. Sulla superficie la distanza è immensa, ma scendendo in profondità mi avvicino all’altro che fa la stessa strada».

Le cose stanno proprio così. Questa opera di approfondimento comporta però la capacità di essere, per amor di Dio, santamente polemici nei confronti dei membri della propria fede che cercano, alla superficie, la loro legittimazione e il riconoscimento del loro ruolo pubblico. Si tratta di una polemica che può anche rivestirsi di parole; tuttavia la sua più autentica collocazione sta nell’esempio.

 

Piero Stefani

 

 

105 – I tavoli interreligiosi (26.03.06)ultima modifica: 2006-03-25T15:55:00+01:00da piero-stefani
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