103 – Un’Antigone ebraica (12.03.06)

Il pensiero della settimana, n. 103.

 

Qualcuno afferma che  la civiltà del commento e quella della critica siano forme alternative: la prima apparterrebbe alla tradizione, la seconda alla modernità di stampo illuminista. Ad altri pare, con più fondamento, che di fronte ai testi biblici occorra accogliere lo «spirito del commento» senza ignorare la critica. L’ermeneutica è consapevole che  solo una riscrittura «redazionale» dei fatti consente di prospettare una via narrativa capace di trovare un senso nuovo agli eventi esposti. Uno di questi significati può essere quello di far prevalere la riconciliazione là dove c’era la violenza. Per raggiungerlo  non  ci si affida all’oblio. Non si punta neppure su una manipolazione che falsa gli accadimenti: si fa ricorso a una consapevole riscrittura. Tuttavia il confine tra questi due estremi è lungi dall’essere invalicabile. Le differenze più abissali sono separate da un capello.

Nel ventunesimo capitolo del secondo libro di Samuele vi è una storia atroce e rappacificante. Si narra che al tempo di re Davide ci fu una carestia lunga tre anni. Il sovrano ne chiese il motivo al Signore. Si sentì rispondere che ciò avveniva perché il suo predecessore, Saul, aveva violato un giuramento fatto da Giosuè con i Gabaoniti  al tempo dell’ingresso del popolo d’Israele nella terra di Canaan (cfr. Gs 9,3-27). Questa popolazione, con uno stratagemma, era riuscita a farsi garantire la vita, sia pure a prezzo di una costante umiliazione. Saul, violando la promessa, aveva però cercato di sterminarli. Davide chiede ai Gabaoniti cosa deve fare per riparare il torto. Essi rispondono che non è questione né di oro, né di argento. La colpa va ripagata con il sangue; domandano perciò che fossero loro consegnati sette discendenti di Saul da impiccare sul monte Gabaon. Il re accetta. A motivo del giuramento da lui fatto al suo compianto amico Gionata, esclude però il figlio di quest’ultimo, lo storpio Merib-Baal (cfr. 2Sam 9,3). Davide prese due figli partoriti a Saul dalla concubina  Rizpà e cinque nipoti del suo predecessore e li consegnò ai Gabaoniti. Essi li impiccarono tutti e sette «davanti al Signore», al tempo della mietitura dell’orzo. Dopo averli uccisi li lasciarono esposti.

Rizpà andò in quel luogo. Prese un luttuoso mantello di sacco, lo tese fissandolo a una roccia davanti agli impiccati. Stette là dalla primavera fino a quando non caddero le prime piogge. Ella protesse i cadaveri non permettendo agli uccelli del cielo di accostarsi di giorno e alle bestie selvatiche di avvicinarsi di notte. Davide fu informato del comportamento di Rizpà.  A suo tempo i cadaveri di Saul e Giona erano stati esposti dai vincitori Filistei sul Gelboe. In seguito erano stati trasportati a Galaad. Il re li andò a prendere e fece riunire le loro ossa a quelle dei sette impiccati di Gabaon. Tutti furono seppelliti nel sepolcro di Kis, padre di Saul: «dopo di che Dio divenne propizio nei confronti della terra» (2 Sam 21,1-14).

Se ci poniamo soltanto nell’ottica della critica il quadro è culturalmente determinato e pieno di ombre dissimulate. Antichi riscontri attribuiscono alla violazione di un trattato la calamità che devasta una regione. Il tal senso si espresse, per esempio, la preghiera del re hittita  Mursil II (XIV sec. a.C.). Stando alla lettera, la Bibbia non si stacca da questa visione arcaica. Colta nel suo contesto storico l’esecuzione ha tutta l’apparenza di essere tributaria di antichi rituali di fertilità destinati a portare la pioggia a una terra arsa da un sole cocente (cfr. 2 Sam 6.9-10). Vista invece nell’angolatura politica delle lotte dinastiche, l’episodio indurrebbe a credere che Davide, consegnando alla morte i discendenti di Saul, si sbarazzasse di pericolosi pretendenti al trono. Lo storico della successione non ignorava l’eventualità alla quale fa, in anticipo, più di un’allusione (cfr. 2 Sam 9,3-4; 2 Sam 16,7-8). La sua preoccupazione era però di evidenziare la clemenza di Davide rispetto alla casa di Saul (cfr. 2 Sam 9,1, motivata dal legame con Gionata cfr, 1 Sam 18,1; 2 Sam 1,17-27): ciò gli impedì di esporre apertis verbis la prospettiva. Si spiega quindi perché l’episodio dei sette impiccati sia stato relegato nelle «appendici». La tradizione anti-davidica che lo tramandava ha comunque lasciato nel capitolo traccia del suo stato primitivo (cfr. 2Sam 1.2a.4a.6.8-10). Il redattore ha però ritoccato il racconto facendolo virare a favore di Davide. Egli sottolinea che il re ha agito secondo la volontà del Signore. Consegnando i discendenti del suo predecessore, Davide non ha fatto che rendere giustizia ai Gabaoniti, senza mancare di pietà verso Saul e i suoi.

La figura di Rizpà trascende tutti questi rilievi. In riferimento al suo comportamento, Paolo De Benedetti ha evocato i «sotterranei della storia», vale a dire l’infinito dolore della gente comune vittima delle logiche spietate dei potenti e di cui, dopo, nessuno parla. Sono possibili altre letture. Tra esse quella che vede in questa madre una specie di Antigone ebraica. Pur senza voler esasperare la fin troppo scontata antitesi Atene-Gerusalemme, l’aggettivo che sposta il riferimento dall’Ellade alla Terra d’Israele ha il suo peso, specie nel ridefinire il ruolo affidato alla pietas.

La chiave di volta sta nella maniera di intendere il verso «stette là dal principio della mietitura dell’orzo finché dal cielo cadde su di loro la pioggia» (2Sam 21,10). Vi è un modo cronologico di interpretarlo. In tal caso si intenderebbe: dalla primavera fino all’autunno. Si porrebbe così in rilievo una tenacia senza uguali capace di reggere ai dardi infuocati dell’estate. Eppure questa non ci appare la lettura più profonda. La caduta della pioggia va intesa piuttosto come cessazione della carestia. L’intero episodio, quando le ossa di tutti i morti trovano riposo nel sepolcro del comune antenato, termina dicendo che Dio divenne propizio nei confronti della terra (atto espresso con una radice verbale – ‘tr   che ha il senso primo di pregare. In quel placarsi c’è l’esaudimento di una richiesta). A chi spetta il merito di far cessare la punizione? Se fossimo nell’ambito della cultura arcaica la risposta sarebbe: il prezzo è stato pagato; l’uccisione dei sette discendenti di Saul ha compensato la violazione del giuramento. Sarebbe il trionfo di un’antica giustizia retributiva. È quindi decisivo affermare che quanto pone termine alla carestia è tutt’altro, vale a dire l’atto di Rizpà. Esso ispira la stessa azione del re Davide che onora e riunisce in morte le ossa di tutti i discendenti di Saul. La muta preghiera di Rizpà fa passare il racconto da espressione di un ferreo vincolo di giustizia garantito dal giuramento a una riconciliazione con la terra che avviene in virtù non già delle vittime ma dell’onore e della memoria loro riservate.

Il cuore dell’Antigone di Sofocle sta nel confronto tra la legge di Creonte e quella non scritta degli dèi «gli ordini che tu gridi non hanno tanto nerbo da far violare a chi ha morte in sé regole sovrumane,  non  mai scritte, senza cedimenti» (vv. 451-453). Rizpà compie solo gesti, nessuna parola esce dalla sua bocca. Ella non viola alcun decreto regale contrapponendovi una legge più alta. Davide non la osteggia, al contrario, la imita. L’azione più grande della concubina di Saul è quella di stendere il sacco come sudario sui propri figli (due) e su quelli che non sono nati dalle sue viscere (cinque). Rizpà va oltre gli stessi legami materni. Non compie alcuna distinzione: onora tutte le sette vittime come fossero figli suoi. Non eleva neppure una protesta. Il suo agire confuta di per sé la spietatezza legata al peso attribuito alla violazione di un giuramento, il vincolo che, una volta infranto, va pagato con il sangue. Di fronte agli impiccati si erge il macigno di un Dio chiamato in causa per garantire l’osservanza delle clausole e per punire la violazione. Rizpà non riesce a impedire che le vittime siano uccise. La sua pietas però trasforma i morti in motivi di riconciliazione. Ella arriva tardi, per più versi irrimediabilmente troppo tardi, eppure non è solo così: il suo agire è un esempio che placa e un modo per non concedere alla violenza l’ultima parola.

Piero Stefani

 

 

 

 

103 – Un’Antigone ebraica (12.03.06)ultima modifica: 2006-03-11T16:06:00+01:00da piero-stefani
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