90 – Dal gemito alla responsabilità (11.12.05)

Il pensiero della settimana n. 90

 

Fino a non molti anni fa, in ambito cattolico, un richiamo corposo al libro dell’Esodo sarebbe stato, prima di ogni altra cosa, associato alla teologia della liberazione. Il cuore del messaggio esodico era considerato il riscatto sociale e politico degli oppressi. Il loro passaggio da una condizione di asservimento a una di libertà doveva  trovare concreto riscontro nell’orizzonte storico. Questa non banale speranza è caduta sotto la scure delle condanne ecclesiastiche e, soprattutto, è stata travolta dalla fine indecorosa del socialismo reale. Ora aspetta sotto la cenere tempi in cui potersi manifestare con rinnovata energia. Per essa adesso sono anni di vacche magre.

Più di frequente la liberazione  è oggi intesa in termini esistenziali. Il grido che si alza dall’oppressione è colto come gemito della persona sofferente in quanto preda della malattia, dell’emarginazione sociale, della devianza, della dissipazione. Il libro dell’Esodo afferma che il grido si innalzò dalla schiavitù. Esso fu udito dal Signore che capì (Es  2,23-24). Non si parla perciò di una preghiera intenzionale da parte degli ebrei: il grido era un semplice lamento, non una supplica. Esso però attira ugualmente su di sé l’attenzione di Dio. Questo vale anche per i gemiti degli sventurati e degli infelici. Dio li ama per quel che sono e in ciò si trova la radice della loro liberazione. Ciò è specialmente vero se altre persone, sulla scorta del loro Signore,  si comportano in modo analogo. Alcune testimonianze di questa spiritualità sono molto alte e toccanti (cfr. per es. Daniele Simonazzi, In ascolto delle creature in Quaderni di Qol, In ascolto del creato,  Atti del Convegno nazionale, Reggio Emilia 26/27 febbraio 2005, Aliberti, Reggio Emilia 2005, pp.225-230). In questi casi sembra però  all’opera una precomprensione orientata a separare l’esodo dall’Egitto dal monte Sinai, il momento nel quale il Dio liberatore offre al popolo la sua Legge.

Nel mondo cattolico si assiste oggi a una specie di divaricazione. Da un lato vi è la componente istituzionale che sembra puntare su un Decalogo sganciato dalla dinamica liberatoria dell’esodo. Per essa le parole con cui Dio si autopresenta sul monte («Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto» Es 20,   2) non rivestono alcuna importanza decisiva. Se la rivelazione rimanda a un legge divina universale già scritta nelle coscienze, la liberazione da condizioni di oppressione storica o da sofferenze esistenziali non svolge un ruolo fondativo. Dall’altro lato si assiste invece a un richiamo alla misericordia gratuita di Dio che non ha bisogno di legge in quanto si estende a sofferenti, sbandati e sviati per la semplice ragione di essere tali. La prevalente visione ebraica è diversa. Essa afferma che il popolo è stato fatto uscire dall’Egitto per giungere al Sinai. In altre parole, fa parte della liberazione esser posti nelle condizioni di poter accettare liberamente il giogo della Torà (Legge).  A tal proposito un commento giudaico presenta i tre mesi che vanno dal passaggio del Mar Rosso al Sinai come un periodo di convalescenza durante il quale  il popolo, uscito da un brutale sfruttamento, fu sostenuto con la manna e l’acqua dalla roccia e protetto dalla nube. Una volta ristabilito si trovò nelle condizioni di poter accogliere i comandamenti. Fa quindi parte integrante della logica della liberazione non essere più servi del faraone al fine di poter essere liberi servi del Signore.

Questa prospettiva ci insegna molto. Qui non si tratta del puro rispetto della legalità ma di ben altro. È infatti componente costitutiva della dignità umana essere nelle condizioni di potersi assumere le proprie responsabilità. Si è amati per quel che si è, ma si è chiamati sempre a essere quel che non si è ancora. Il primo momento è  propedeutico al secondo. Lo spazio della misericordia, con ciò, è tutt’altro che annullato: nessuno è pienamente all’altezza di quanto gli viene chiesto. Ciò però non significa che si possa scaricare le proprie responsabilità come se si fosse preventivamente giustificati a non assumerle. Non per questo la voce della misericordia viene tacitata o è sacrificata  sull’altare di una angusta rigidezza morale. Come insegna il Nuovo Testamento e come, in modo definitivo, ha colto Lutero le ali della  misericordia si alzano in volo solo là dove c’è la Legge. Le due componenti si rimandano a vicenda. In quest’ottica parlare di peccato è momento necessario perché si dia la liberazione. Richiamarsi all’etica della responsabilità significa sostenere che si è tenuti a non aggravare  il male che ci opprime. Essa non sostiene che non ci sia rimedio alle colpe. Il fatto che non si riesca a sconfiggere il male non esonera dalla lotta. Non è privo di significato che gli spiriti che anelano alla liberazione totale e definitiva, vedendo quanto siano stentati i passi di coloro che tentano di non allargare il dominio del male, sostengano che questi sforzi non servono a nulla. L’espressione è una spia dell’esistenza di una inconsapevole mentalità utilitarista. Pur facendo appello a una liberazione trascendente e totale il loro pensare resta legato, in fin dei conti, al soddisfacimento «umano, troppo umano» dei propri bisogni. Non si può trascurare questo acuminato pungolo, tuttavia la dignità umana si colloca anche su altri registri.

Di fronte a molte catastrofi, prima di tirar in ballo l’impotenza di Dio, occorrerebbe interrogarsi sulle responsabilità umane. Solo chi ha passato la vita a cercare di comprendere perché il nazismo salì al potere, a chiedersi come fece a organizzare uno sterminio di tali proporzioni e a tentare di capire quali furono le responsabilità di breve e lungo periodo dentro e fuori la Germania che ne consentirono l’attuazione, può interrogarsi in modo autentico sul silenzio di Dio ad Auschwitz. Domanda divenuta spesso retorica proprio perché posta con scontata immediatezza.

Piero Stefani

90 – Dal gemito alla responsabilità (11.12.05)ultima modifica: 2005-12-10T08:15:00+01:00da piero-stefani
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