74 – Il collo della coscienza (10.07.05)

Il pensiero della settimana n. 74

 

Un vecchio dibattito scientifico ottocentesco parlava o di giraffe che, di generazione in generazione,  allungavano il proprio collo per raggiungere le foglie poste sulla cima degli alberi (Lamarck) o di giraffe dotate fin dall’origine di colli di diversa misura: chi l’aveva più lungo sopravviveva, chi l’aveva più corto soccombeva (Darwin). L’adattarsi o il trovarsi casualmente adatto all’ambiente diventavano questione di vita o di morte. L’abituarsi alle circostanze è strategia di sopravvivenza anche per gli esseri umani. Difficile però ritenere che qualcuno si trovi già in partenza più predisposto di altri a reggere alle situazioni che incontra nella sua esistenza. Esse possono fungere da fattore selettivo, tuttavia la spinta decisiva è l’altra, quella grazie alla quale ci si adatta. L’abituarsi è un fenomeno che fa allungare il collo di molte coscienze. Il segreto sta prima di tutto nella capacità di rispondere alle circostanze. Nelle società umane Lamarck prevale su Darwin.

La persona umana, essere culturale, si trova a dover fare i conti con il proprio senso morale. Per lui la sopravvivenza si misura con i valori. L’esistere non è in se stesso il massimo imperativo morale. Vi sono realtà che valgono di più della vita biologica. Eppure la spinta a sopravvivere resta fortissima. Vi sono avvenimenti che suscitano orrore. Essi per ore o giorni paiono quel che sono: inaccettabili. Il trascorrere del tempo snerva però la forza dell’animo. Quanto  era respinto viene accettato. Se ci si ostina a non condividere le regole del gioco si soccombe. Si è dei disadattati dotati di colli non funzionali alle circostanze. Ciò vale tanto per le piccole sopravvivenze quotidiane, in cui si scendono uno per uno i gradini del compromesso, quanto per le vicende estreme in cui si è di fronte alla vita o alla morte. Nei lager – ci ha ricordato tante volte Liana Millu – le persone dalla coscienza priva di calli si consumavano come candele. 

Il mondo è un paese globale cosparso da piccoli e grandi lager. Per sopravvivere è funzionale non porsi mai la domanda vietata nei campi: perché? Se si sosta su questo interrogativo, se ci si chiede la ragione del male che ci attanaglia si è poco adatti a sopravvivere. Come volevano i positivisti duri e puri quella del perché è domanda che sa di metafisica; meglio soffermarsi su un  più prosaico e funzionale come. Il dominio della tecnica coincide esattamente con l’atto di ottundere, nelle coscienze, la lama del perché. Tanto di fronte agli eventi grandi che sconvolgono il pianeta quanto davanti alla prassi quotidiana delle corsie ospedaliere la risposta al negativo si appoggia tutta sul come. Come prevenire, garantire, stroncare, combattere.

Non di rado le previsioni sono sbagliate. In tal caso le tecniche risultano inefficaci. È solo allora che salta fuori il discorso sulla responsabilità. Nell’era della tecnica il giudizio morale è fondato sull’errore e non sull’intenzione (che si presenta al più come un’aggravante). Anche con il senno di poi non ci si emancipa dal dominio del come. L’antica ammissione «ho peccato» lascia sempre più il campo a un’altra: «ho sbagliato». A differenza della prima, la seconda resta chiusa in una logica strumentale.

La tecnica mira a modificare in parte la realtà. In quella parzialità è contenuta una sostanziale accettazione. Si cerca di mutare solo quanto non è rifiutato in toto. Le  tecniche mediche prolungano la vita – o la sopravvivenza – solo perché accolgono la morte come destino ultimo e insuperabile della condizione umana. Si adattano all’ambiente; ciò le rende efficaci. Chi dice un no netto e senza compromessi al male è personaggio singolare. Chi resta fedele alla scelta di dichiarare tale l’inaccettabile si colloca in un dominio che va dalla stravaganza alla follia, dal suicidio alla santità. Il profeta Abacuc rivolgendosi a Dio si domandava: «Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’iniquità perché, vedendo i malvagi, taci mentre l’empio ingoia il giusto?» (Ab 1,13). La conclusione del passo è un irrisolto interrogativo sul perché, la prima parte è una descrizione senza uguali della santità di Dio.

Piero Stefani

74 – Il collo della coscienza (10.07.05)ultima modifica: 2005-07-09T09:35:00+02:00da piero-stefani
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