70 – Farinata e Cavalcante (12.06.05)

Il pensiero della settimana n.70. 

Il decimo canto dell’Inferno dantesco raggiunge le massime profondità del pensiero escatologico quando dà voce a coloro che sono convinti che con la morte tutto finisca. Chi, in proprio, non avrebbe mai potuto scrivere il resoconto di un viaggio nell’aldilà  ne diviene protagonista. Si tratta di personaggi grandi e dannati. La loro pena più autentica è di essere costretti a continuare a pensare come se  fossero ancora in questo mondo. Siffatta duplicità rende la loro dannazione una specie di purgatorio senza speranza.

Farinata prosegue a vivere all’insegna del primato della politica: il suo tormento non è il fuoco bruciante del  giaciglio ma la irrimediabile sconfitta della sua parte. Cavalcante pensa ancora che la vita terrena sia tutto. Ipotizza che sia l’altezza di ingegno e non la grazia a guidare Dante nel viaggio ultraterreno, perciò non si capacita del perché quella sorte non sia toccata a suo figlio. Un’allusione equivocata gli fa concludere che Guido sia morto. L’ipotesi getta Cavalcante nel più irrimediabile sconforto. La sua esistenza nell’aldilà dovrebbe essere una conferma assoluta che la morte non è la fine di tutto, eppure così non è. In questo non rendersi conto della vita dopo la morte sta  la sua pena.

Farinata e Cavalcante vivono nell’inferno con l’animo ancora catturato dalla dimensione mondana della famiglia. Il primo, nobile, guarda al passato: quanto gli sta a cuore sono gli antenati, la schiatta e quindi, di riflesso, la  città. Fiorenza e i suoi magnati restano ancora vivi nel regno delle ombre. Il secondo, borghese, è rivolto al futuro legato a una famiglia ormai ristretta: quanto lo preoccupa è il figlio e il suo successo nella vita. Anche se aperto in avanti il suo sguardo è dunque più angusto, la politica non è più un assillo. In lui domina la dimensione privata. L’altezza di Cavalcante non supera il mento di Farinata. Quest’ultimo, a differenza di Dante,  non si cura dell’interruzione del suo vicino. Prosegue nel suo discorso come se nulla fosse accaduto. Per chi ha a cuore la città il destino dei singoli è dato trascurabile. Quel che conta è il loro apporto alla causa comune: «Ma fu’ io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto» (X, 91-93).   

L’essere legati allo spazio intermedio  contraddistingue per i due una dislocazione a cui è negata l’eternità. Il contemptus inferni di Farinata fa parte sia della sua pena sia della sua dignità. Si tratta di una condizione non definitiva. La sorte finale dei dannati di questo girone sarà una tomba eternamente chiusa. La fine del mondo e la resurrezione dei corpi farà cessare ogni loquela su labbra che possono parlare solo perché non sono di carne. Coloro che non credevano nell’immortalità dell’anima sono confutati in modo definitivo dal fatto che, persino quando è certamente morituro, il corpo, è  chiamato a essere per sempre. Ancor più dell’anima immortale è la resurrezione dell’ultimo giorno a costituire la smentita definiva di ogni epicureismo. Da allora in poi i mortalisti non avranno mai più voce in capitolo. Il loro purgatorio senza speranza lascerà il posto al silenzio perenne di un indistruttibile cimitero.

I dannati vedono in avanti e compiono preannunci, non scorgono però il presente. Farinata annuncia che anche  Dante andrà in esilio, esperienza comune che riconcilia nella memoria gli esponenti di due fazioni ostili. Cavalcante invece non sa che suo figlio è ancora vivo. Il dubbio nato da questo confronto è sciolto  dalla precisazione secondo cui, per volere di Dio, i dannati vedono le cose lontane, mentre quando esse si approssimano o sono, la loro conoscenza si estingue. La preveggenza degli abitatori dell’inferno è un futuro che non diviene mai un presente. Non si tratta di profezia,  a loro infatti è negato dire: il tempo è compiuto. La parola di chi si considera profeta  culmina nel dichiarare: Es ist Zeit, («è il tempo»), secondo l’espressione di Thomas Müntzer  che riproponeva parole risalenti all’inizio della predicazione di Gesù. I dannati non possono mai dire «ora», in ciò si trova il loro scacco. Vivono senza speranza sullo sfondo dell’avvenire.: «Però comprender puoi che tutta morte / fia nostra conoscenza da quel punto / che del futuro fia chiusa la porta» (X,105-107). L’ora in cui tutto si realizza segna la cessazione di ogni loro parola. La dannazione non è altro che una previsione senza adempimento. La realizzazione delle promesse comporta l’estinzione persino dell’umbratile esistenza della vita infernale.

Piero Stefani

70 – Farinata e Cavalcante (12.06.05)ultima modifica: 2005-06-11T09:55:00+02:00da piero-stefani
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