71 – Le religioni a scuola (19.06.05)

Il pensiero della settimana  n. 71

 

Premessa. Flavio Pajer mi ha invitato a interloquire con i temi della traccia qui allegata. Essa è stata elaborata in vista di un seminario orientato, a sua volta, ad un prossimo convegno. Lo scopo è quello di favorire l’introduzione nella scuola di un insegnamento obbligatorio e aconfessionale delle religioni. Pajer stesso mi  ha suggerito di dedicare all’argomento un pensiero della settimana.  Accolgo il suo consiglio.

 

Che la scuola debba occuparsi di religioni è talmente ovvio che l’onere della prova dovrebbe pesare sulle spalle di quanti o escludono questa possibilità o la relegano scientemente in ambiti marginali confessionalmente tutelati. Il punto resta saldo anche se porta con sé aspetti problematici. La presenza di questi ultimi, vista in una determinata prospettiva, porterebbe però addirittura acqua al mulino dell’inserimento di questo nuovo ambito disciplinare.

Un passo della traccia L’istruzione religiosa nella scuola italiana afferma: «Il “fatto religioso”, come tutti i fatti umani, appartiene all’universo culturale e perciò ha una rilevanza culturale». Non si può negare che la formulazione appena trascritta riveli una spiccata propensione verso la tautologia. Quel «perciò» che introduce l’espressione «rilevanza culturale» non è paragonabile a un ragionamento che attraverso un «ergo» giunge a conclusioni che, pur essendo collegate, alle premesse, arricchiscono il nostro patrimonio conoscitivo. La nostra affermazione infatti conclude ripetendo quanto  era già stato affermato in relazione sia al «fatto religioso» sia (ancor più estesamente) a tutti i «fatti umani». Questa rete dalle maglie  molto larghe rischia però di non riuscire a giustificare in modo convincente l’opportunità di introdurre un nuovo insegnamento.  La  specificità degli universi religiosi si trova nella loro pretesa di essere ‘fatti umani’ qualitativamente diversi dagli altri. Questa istanza non va dimenticata quando si propone  una disciplina a se stante.

In realtà la scuola si occupa già a più riprese di religioni proprio perché considerate espressioni di cultura. Tuttavia lo fa male e in modo frammentario. La religione fa ripetutamente capolino nell’ambito della storia (almeno in età precedenti a quelle moderne), nelle letterature (classica, straniera, italiana), in filosofia, in geografia (per quel poco che è presente; lacuna da tutti riconosciuta  e mai sanata), in arte, ecc.  La profonda insoddisfazione che avvertiamo su questo fronte nasce non da un’assenza totale, ma da una  presenza parziale inserita all’interno di altri contenitori culturali. Come nel caso dei liquidi, anche qui è il vaso a dare forma e riconoscibilità a contenuti che andrebbero altrimenti  dispersi per le terre. Per quali motivi le religioni dovrebbero però avere un’anfora loro propria?

Leggendo la questione in termini storici, l’ospitalità scolastica, quasi mai molto gradita, dei riferimenti religiosi nell’ambito di altre discipline, costituisce l’altra faccia della opzione liberale che considera una faccenda strettamente personale l’adesione a una fede e l’esercizio della pratica religiosa. Dalla concezione riduttiva e snaturante che riporta a fatto privato l’adesione  a una fede consegue che le inevitabili ripercussioni culturali delle religioni siano viste sotto l’egemonia della componente maggioritaria. Non a caso è stato proprio  il massimo pensatore liberale italiano a dichiarare che non possiamo non dirci cristiani. Cristiani in quanto non ebrei, non musulmani, non buddhisti, ecc. La cultura è l’unico ambito che legittima l’interesse per le religioni. Siccome però il primato spetta alla ‘nostra cultura’  l’attenzione è posta sotto l’usbergo del cristianesimo. Quando, poco meno di ottanta anni addietro, la Provvidenza fece incontrare a Pio XI uno statista non allevato nelle dottrine liberali, il discorso trovò una sua nuova ridefinizione grazie alla quale l’ethos cattolico fu nelle condizioni di trovare una collocazione istituzionale anche nell’ambito scolastico. La scelta venne poi confermata dalla costituzione repubblicana.

Dopo molti decenni, in una società radicalmente diversa, l’inerzia delle idee fa sì che le regole del gioco siano ancora in sostanza quelle di un tempo. Al cattolicesimo è riservato un ruolo a sé,  eppure nel contempo anch’esso è posto sotto la spada di Damocle della facoltà di avvalersi o di non avvalersi di tale insegnamento (l’adesione a una religione dipende dalla scelta individuale). In un simile contesto l’IRC è un centauro che, come tutti gli ibridi, si presenta sempre in perenne crisi di identità. Dal canto suo la proposta di introdurre l’insegnamento delle religioni vive sotto il ricatto ‘liberale’ che esigerebbe che si desse spazio indistintamente a tutte le fedi senza far preferenze. Infine i riferimenti culturali alla ‘nostra religione’ godono di un rinnovato rigoglio, piegati come sono a usi in cui è il riferimento identitario a far aggio su quanto è proprio del cattolicesimo. Vi è una bilancia che non sgarra mai: quando la fede serve in primis a stabilire un’identità sta a significare che di fede ce n’è molto poca.

L’introduzione nella scuola di una disciplina che abbia come oggetto diretto le religioni può sensatamente avvenire solo mandando in frantumi l’assetto fin qui descritto. Le religioni vanno considerate e presentate dotate di pretese che le rendono diverse da altri fatti culturali. Si tratta di salvaguardare una diversità e non già di instaurare inimicizie. In questo contesto deve essere concesso uno spazio adeguato a un approccio fenomenologico capace di descrivere le religioni per quel che sono. A questa esigenza va fatta corrispondere la consapevolezza che porre in campo uno studio aconfessionale di più religioni è un’opzione posta, per definizione, in un ambito secolarizzato. Tuttavia questo insegnamento non può trovar rifugio all’ombra di un’avalutatività assoluta. Non è opportuno porre tutto sullo stesso piano. Le regole con cui sono presentate le religioni comportano la legittimazione del confronto comparativo. Proprio questa opzione  implica in se stessa un giudizio negativo da riservare a eventuali pretese esclusivistiche e settarie presenti in qualche ambito religioso. Di contro tali arroganze degli esponenti delle religioni non sarebbero, in sostanza, scalfite dalla moltiplicazione di spazi confessionali garantiti dalle autorità pubbliche. In tal caso ci si troverebbe solo di fronte a una specie di editto di Nantes multireligioso  grazie al quale a ogni confessione è garantita una propria piazzaforte.  Il versante comparativo è fecondo se consente la formulazione di alcuni giudizi di valore. Essi riveleranno sia convergenze profonde, sia divergenze insuperabili. In questi ultimi casi non ci potrà sottrarre a una scelta valoriale. Il fatto incontestabile che solo una struttura pubblica possa dare uno spazio paritario alle religioni non equivale a sostenere che esse vanno considerate  realtà intercambiabili. Questo vale anche per il ruolo pubblico di loro spettanza. Le varie comunità religiose hanno il diritto di essere tutelate nella loro specificità solo nella misura in cui i loro membri si prendono concretamente a cuore il bene comune. Un capitolo di questa preoccupazione sta anche nel non opporsi all’introduzione nella scuola di un insegnamento aconfessionale e obbligatorio delle religioni.

 Piero Stefani

71 – Le religioni a scuola (19.06.05)ultima modifica: 2005-06-18T09:50:00+02:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo