69 – Mi hai tessuto nel ventre di mia madre (05.06.05)

Il pensiero della settimana n. 69

Premessa: riproduco con qualche variazione e integrazione un pensiero apparso verso la fine del 2003, la ragione della riproposta non è difficile da cogliere. 

 

«Mi hai tessuto nel ventre di mia madre»

 

 La persona di fede lungo quali itinerari deve, a tutt’oggi, rivolgere il proprio pensiero riguardo all’origine della vita abbarbicata nelle profondità dell’utero materno? Cominciamo da un accostamento sulle prime eterogeneo. Nella messa cattolica vi è una formula che benedice Dio per il pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Il modello è costituito dalla benedizione ebraica che afferma: «Benedetto sei tu Signore, Dio del mondo che fa uscire il pane dalla terra». Si usa proprio questa espressione «fa uscire» (alla terza persona singolare)  riferendola al pane, quindi non al chicco di grano o alla spiga, ma al prodotto già commestibile. Per qual motivo si ricorre a questa formulazione? Perché si sta ringraziando. Quando si ringrazia Dio, si pone come tra parentesi l’intervento umano, che pure ha un ruolo determinante; in questa circostanza si fa un passo indietro e si mette in un angolo se stessi.

Cosa c’entrano queste allusioni con il discorso relativo al concepimento? Tale accostamento può tornare alla mente quando si leggono alcuni versetti del Salmo 139: «Sei tu che hai acquistato (radice qn’) i miei reni, mi hai tessuto nel ventre di mia madre. Ti rendo grazie perché sono stato compiuto come un prodigio, meravigliose sono le tue opere» (Sal 139,13-14; cfr. Gb 10,8; Is 44,24). Frasi di questo tipo – il cui contenuto si può riassumere dicendo: «Tu sei l’origine della mia vita» – vanno intese sulla scorta di quanto già detto: l’uomo e la donna e il loro reciproco incontro importano moltissimo, ma, nel momento in cui si sta rendendo grazie, si dà la preminenza solo a chi è l’origine prima della vita di tutti e di ciascuno. Così facendo si stabilisce un rapporto tra colui che «in principio» ha dato la vita al mondo e coloro che fanno sì che questa vita si prolunghi sulla terra. Solo in questo senso si può parlare creaturalmente di donum vitae. Questo nesso è colto appieno soltanto ponendoci nella posizione in cui è il generato a guardare alla propria origine. L’unica prospettiva che può fondare nella persona umana un’autentica responsabilità anche verso il «dopo» è tener desto dentro di sé il senso della propria origine. Altamente problematici sono invece gli sforzi volti a stabilire il diritto di figli virtuali di essere concepiti attraverso un atto sessuale naturale all’interno del matrimonio. Il problema cruciale non è quello dei diritti propri o di potenziali soggetti futuri; l’educazione alla fede si concentra tutta nel far crescere in noi la convinzione che l’origine della nostra esistenza dipende da «altri». Tutto il resto è conseguenza di  ciò. Si può risalire più indietro dell’affermazione, in questi giorni usata in modo propagandistico, secondo cui noi tutti siamo stati embrioni. Allora si evidenzierebbe la presenza di una relazione con i propri genitori e con Dio.

All’inizio del diciannovesimo capitolo del Levitico il Signore comanda a ciascuno di temere (nel senso alto e religioso del termine) la propria madre e il proprio padre e di osservare i suoi sabati (Lv 19,3). Nel Decalogo i due soli comandamenti  affermativi sono il ricordo del sabato e l’onore riservato al padre e alla madre (Es 20, 8-12). Questi accostamenti prospettano alla creatura lo stesso tema: la dipendenza da un’origine che la precede. Ad essa si deve guardare con riconoscenza. Ciò vale tanto per i genitori quanto per il Creatore (il sabato è il sigillo della creazione). La presenza della trascendenza rispetto al proprio esistere può essere affermata anche in un modo perfettamente laico: nessuno ha scelto in proprio di venire al mondo. Anche per questo nessuno dovrebbe pretendere di controllare, così come avviene nei processi produttivi, il concepimento e lo sviluppo di un’altra vita. È il senso della propria origine relazionale a suscitare la vera responsabilità nei confronti del «dopo». In ogni caso la volontà spasmodica di avere un figlio non sarà mai nelle condizioni di ascoltare il parere di quest’ultimo. Il senso di trascendenza legato al ricordo del proprio essere concepito non dovrebbe essere estraneo all’atto di concepire. Tutto si può controllare, ma chi può garantire al nascituro una vita felice? E chi può dimostrare che l’atto di amore dei coniugi avrà come corrispondenza la felicità propria e altrui?

Il più autentico onore che un figlio può dare ai propri genitori e che un credente può riservare al suo Dio sta in un instancabile impegno personale volto ad affermare che vale la pena vivere. Quando il proconsole Paolo Fabio Massimo introdusse il calendario giuliano nella provincia dell’Asia, fece redigere un’iscrizione che contiene un vero e proprio inno all’era nuova inaugurata da Augusto. In esso si legge questa frase: «Gli uomini non si pentivano più di essere nati». Nessuno di noi può più credere  che un simile «evangelo» possa esserci offerto da una divinità imperiale e ancor meno da un secolare potere politico. Si può però sperare che questa convinzione trovi ancora ospitalità nell’animo umano. Ciò avviene meno di rado se il senso della propria esistenza non è fatto dipendere in modo determinante dal diritto a essere felici. Attestare che val la pena vivere è una forma di gratitudine trascendente diretta verso il volto visibile – quanto meno nel ricordo – dei genitori e, per il credente, orientato anche verso quello invisibile di Dio. Vi è però una madre (o matrigna) a cui la persona di fede non è tenuta a dare alcun ringraziamento: la natura.

Bisogna diffidare dal ricorrere a una parola astratta come «vita». Essa può aver spazio nella natura; tuttavia la fede parla un altro linguaggio. Essa conosce solo il Vivente e i viventi che da lui hanno ricevuto il soffio vitale. Nell’ambito della natura la vita umana è quella di un vivente tra i viventi senza che ciò rappresenti la realizzazione di uno specifico disegno intenzionale. Tutto si lega e tutto si tiene. È lecito sostenere che l’essere umano non si riduca al biologico, ma non è consentito sacralizzare nell’uomo quest’ultima dimensione qualora ci si astenga dal farlo negli altri viventi. Eppure questo esito oggi è tutt’altro che infrequente. In proposito Gian Enrico Rusconi ha giustamente parlato di «biologismo teologico che sacralizza (…tramite l’idea dell’intervento divino diretto) un processo biologico primigenio complesso, che può essere interpretato dal punto di vista scientifico in modo diverso» (G.E. Rusconi, La  variante laica in Il Regno-attualità, 2,2005.p.27).

Rispetto alla sacralizzazione della vita nel suo complesso le religioni orientali sono molto più attrezzate di quelli che professano la fede nella creazione. Non è affatto accidentale che molti scienziati avvertano il richiamo del buddhismo. Il concetto di creazione non è suffragabile ricorrendo all’indagine scientifica.  Nel XIII sec. il genio di Tommaso d’Aquino riuscì, per la prima e forse unica volta, a trovare una sintesi armoniosa tra natura e creazione. Di quella potente connessione molti hanno ancora nostalgia. Lo si può comprendere; ma non è convincente presentarla come una via  ancora percorribile. Il pendolo è tornato a oscillare dalla parte della incommensurabilità (proposta da Sigeri di Brabante) tra la verità di fede della creazione e  l’indagine razionale sulla natura.

Piero Stefani

 

 

69 – Mi hai tessuto nel ventre di mia madre (05.06.05)ultima modifica: 2005-06-04T10:00:00+02:00da piero-stefani
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