51 – Nel mezzo del cammin (30.01.05)

Il pensiero della settimana n. 51 

Amplio un pensiero già scritto (cfr. n. 45).

L’antico filosofo Eraclito affermava che gli uomini si lasciano ingannare dalle cose ben visibili. Le realtà che abbiamo continuamente sotto gli occhi e che ci pare di conoscere da sempre sono quelle che riservano le sorprese maggiori se, all’improvviso, emergono in un’altra luce. Quella conoscenza  che pareva chiara e scontata diviene, all’improvviso, paragonabile alla penombra: una mezza verità circondata da un alone opaco.  Questo vale anche per le parole o le frasi più note. Il fatto di essere note da tanto tempo ostacola il compiere quel mezzo passo indietro che consentirebbe di vederle sotto una diversa angolatura. Spessore e rilievo richiedono sfondi. L’inizio della Divina Commedia non si sottrae a questa logica. Da sempre  conosciuto  esso può tuttora essere colto in una luce nuova.

«Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in  una selva oscura / che la diritta via era smarrita». Divenuti più attenti all’influsso determinante avuto dai ‘sottotesti’ biblici, ci si è più volte opportunamente richiamati, a  proposito di quest’attacco, al novantesimo salmo che indica in settanta gli anni della vita d’uomo (Sal 90,10). Altrettanto calzante è il riferimento al cantico di Ezechia. In questo inno le parole del re di Giuda, dette dopo la sua guarigione, ricordano la condizione angosciosa di chi, assalito da grave malattia, era, a metà della sua vita,  in procinto di sprofondare nelle tenebre della morte (Is 38,10). Anche per Dante le cose stanno così: è solo alla fine del suo viaggio che egli è in grado di dire il proprio passato smarrimento. Se la selva oscura l’avesse inghiottito nessuna parola l’avrebbe mai raccontato. I due riferimenti pongono inoltre in evidenza l’intreccio tra una misura comune («gli anni della nostra vita settanta» Sal 90,10)  e una vicenda propriamente individuale («a metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi» Is 38,10) presente anche nella prima terzina della Commedia: «nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai…». Secondo quanto è proprio delle leggi che presiedono da un lato all’esistere e dall’altro alla  responsabilità, la vita è accomunante mentre lo sperdersi è proprio di una vicenda personale.

Questi giusti rilievi rischiano però di dirottare l’attenzione da un tratto rivelatore: il grande poema non inizia dal principio. La prima parola è «in mezzo». Geniale incipit che dice l’incompiutezza della vita umana la quale non può mai evocare come proprio fondamento un inizio assoluto. Essa è e resta cammino che può smarrirsi e ritrovarsi. Dante aveva una considerazione altissima della propria opera; egli però si presenta come scriba Dei in quanto viator, per questo comincia dal mezzo e non dall’inizio. Spetta alla Bibbia, il grande Libro che tutto contiene, prendere avvio con «in principio» e terminare il proprio percorso con il definitivo «amen» che chiude l’Apocalisse. La Scrittura rivendica a se stessa uno statuto tale da non poter cominciare dal mezzo: deve iniziare dal principio e terminare con la fine. Molti sono i modi con cui intendere quel «in principio», nessuno di essi  può però prescindere dall’evocare l’atto primordiale di porre l’ordine al posto del caos e di gettare luce là dove si estendevano le tenebre. L’inizio della Commedia trascrive in termini di esistenza umana, vale a dire nel mezzo, ciò che la Scrittura evoca al principio. Nel corso del cammino non vi può essere alcun atto creativo in senso assoluto. Oscurità e luce da cosmici e primordiali divengono umani ed esistenziali.

 L’aura di solennità arcaica e misteriosa del verso con cui si apre la Bibbia viene dissolta dalla divina  parola creatrice: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio si  librava sulle acque. E Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu fatta» (Gen 1,1-3; ricalcando la Vulgata). Terra informe, abisso tenebroso, acque oscure e primordiali da una parte, parola e luce dall’altra. La parola è creatrice tanto per la capacità di chiamare all’esistenza la luce quanto per essere nelle condizioni di poter dire le precedenti tenebre. In questo racconto vi è la celebrazione di una vittoria: l’ultima parola non spetta al caos ma a chi, uscitone, lo sa narrare (cfr. Gv 1,5 ).

L’inizio della Commedia ripropone in termini di esistenza umana, «nel mezzo del cammin di nostra vita», le tenebre e la luce delle origini. L’abisso oscuro e primordiale viene perciò riproposto in termini di smarrimento. In esso però vi è ancora uno spirito che aleggia sulle acque del proprio sviamento. «Mi ritrovai in una selva oscura» va letto anche sulla scorta di una terzina successiva: «Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai» (I,10-12). Ritrovarsi in un luogo tenebroso è espressione ambivalente: non è solo essere smarrito: è anche accorgersi di esserlo. Quando ci si perde, per definizione, non ce ne si rende conto («tant’era pien di sonno…»). Il ritrovarsi nella selva è anche, in germe, il rientrare in se stessi, è un primo ridestarsi:  è sapere del proprio smarrimento. Si è nelle condizioni del figlio prodigo della parabola evangelica (inserita in un capitolo tutto dominato dall’idea del perdere e del ritrovare) che quando stava lontano a pascolare porci ritornò in se stesso («in se autem reversus …») (Lc 15.17).

Questa condizione di smarrimento di chi si ritrova tra le tenebre e nell’ombra della morte  si modifica là dove, ripreso il cammino, si giunge a  vedere il colle illuminato dal sole: «guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle» (I,118). Qui il “sottotesto” biblico più preciso è il Benedictus (l’inno liturgico recitato nelle Lodi mattutine di ogni giorno nell’ora in cui spunta il sole): «in quibus visitavit nos oriens ex alto, / illuminare his qui in tenebris et in umbra mortis sedent, et dirigendos pedes nostros in viam pacis» (Lc 1,78-79; cfr. Is 92; 58,8). Nel camminare che mette in moto un mortifero giacere si riattualizza, in modo salvifico, l’originaria vittoria della luce sulle tenebre.

Parola e luce sono simboli creativi e salvifici perché vincono le tenebre limitandone il dominio. Così facendo esse le rendono parte di una vicenda che può essere raccontata proprio perché da esse si è usciti. All’oscurità spetta l’informe parola iniziale non  quella ultima e salvifica; «ma per trattar del ben ch’i’vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i v’ho scorte» (I, 8-9).

Piero Stefani

 

51 – Nel mezzo del cammin (30.01.05)ultima modifica: 2005-01-29T11:30:00+01:00da piero-stefani
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