Dai diritti ai carismi (07.11.04)

Il pensiero della settimana (s.n.)

 

 

Questa settimana il «pensiero» è costituito da un articolo di prossima pubblicazione sulla rivista Esodo.

 

Dai diritti ai carismi

 

  Nelle società moderne uno spazio sempre maggiore è riservato all’uguaglianza dei diritti. Se non è di tutti un diritto non è davvero tale. Questa prospettiva porta ad allargarne in modo inevitabile la sfera. Vi è sempre qualche anfratto in cui qualcuno è meno uguale, in cui non gode dei diritti concessi agli altri. Si è assistito così a una progressiva espansione dei soggetti coinvolti; ciò comporta che l’ideale di uguaglianza rivendichi a sé sempre nuovi territori. Nell’Ottocento e nel secolo appena trascorso i riferimenti per eccellenza furono le religioni, le classi sociali, i sessi, le razze. In anni più recenti hanno fatto irruzione sulla scena anche altri soggetti,  legati, per esempio, al mondo animale, all’ambiente o a forme di vita umana letteralmente embrionali.

  Speculare alla crescita del diritto ugualitario è l’ampliamento del tema della diversità. Si tratta  di due facce interconnesse. Se si estende la portata del primo ambito bisogna giungere a concedere a tutti anche il diritto di essere diversi. In questo caso vengono toccate tanto le differenze che nascono da scelte comportamentali personali quanto quelle collegate a una condizione esistenziale fisicamente o psichicamente diversa da quella della maggioranza. Sorge quindi la prospettiva di una diversità intesa come ricchezza. A essa si accompagna il convincimento che tutti possono dare il proprio contributo al bene comune;  affermazione, quest’ultima, tanto più vera quanto più la società si prende a propria volta cura dei più deboli. A nessuno sfugge che proprio in questi ambiti si situano alcuni degli apporti più alti e qualificanti della civiltà occidentale. Tuttavia appare anche evidente la non  corrispondenza di tale prospettiva alla situazione reale in cui la diversità dei deboli trova espressione in parole di tenore più oscuro e drammatico: emarginazione, esclusione o peggio ancora.

  Una discriminante di grande peso nell’articolare i rapporti tra uguaglianza e diversità si trova nel tema dell’utilità. Se l’utile diviene egemonico il trattamento riservato alle componenti più deboli, qualora non assuma l’aspetto brutale dello sfruttamento, si fa  meno sollecito. Questa prospettiva emerge con grande chiarezza già nei «sacri principi» dell’89. Il primo articolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino recita: «Gli uomini nascono e rimangono uguali nei diritti.  

 Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune». Da questa frase è obbligo concludere che l’utile sociale è legato a filo doppio alla disuguaglianza. Alle spalle della sfera dei diritti continua perciò a stagliarsi l’ombra lunga dell’apologo organicistico di Menemio Agrippa: la società è come un corpo, ogni membro ha una funzione ben diversa da quella degli altri; alcuni sono però indispensabili altri non strettamente necessari: si può vivere senza una mano, ma non senza cuore o polmoni. Rispetto al corpo l’unico ambito in cui si può parlare a pieno titolo di uguaglianza è che tutte le membra fanno parte di esso. In senso stretto qui non esistono diritti individuali: è il corpo nel suo insieme che fa sì che tu sia o piede o mano o testa. Per questa ragione il modello antico viene sottoposto a profonda revisione nella moderna visione liberale: ognuno è titolare di diritti e le diversità si giustificano solo in base all’utilità comune. Quest’ultima però rischia di diventare semplicemente l’espressione delle componenti più forti le quali sono legittimate a prendersi cura degli altri solo nella misura in cui questa prassi collima con lo sviluppo dei propri interessi. Di questa dinamica restano emblemi famosi il macellaio e il birraio di cui parla Adam Smith: noi aspettiamo da loro cibo e bevanda a motivo non di un atto di generosità, ma in virtù del loro interesse che in questo caso è utile anche a soddisfare i nostri bisogni.

L’atto di donare cade per definizione fuori dalla sfera dei diritti, esso inoltre crea strutturalmente delle differenze: vi è  la diversità tra chi dona e chi riceve il dono e  tra quest’ultimo e tutti coloro che nulla hanno avuto. Non si può donare  mantenendo intatto il primato dell’uguaglianza. Come evitare allora che si reintroduca la dimensione del privilegio in cui la diversità è articolata nella forma meschina della superiorità? La risposta in sostanza è una sola: si può evitare questo esito non già fingendo che tutti siano sostanzialmente uguali, bensì solo sentendosi responsabili del dono che si è ricevuto. Più che a vantaggio di una generica utilità comune, il dono va però posto al servizio precisamente di coloro che ne sono privi: ti è stato dato perché  per mezzo tuo esso possa in qualche modo giungere anche agli altri. Questa modalità, che nulla ha da spartire con la sfera dei diritti, è propria della dimensione spirituale dell’esistenza umana; l’unica in cui lo scambio conduce pienamente a un arricchimento reciproco e  in cui il donare non comporta rinunce e il ricevere sottrazioni.

Esattamente questa è la prospettiva di Paolo nella sua trattazione dei «doni spirituali», vale a dire dei carismi. La lettura dei capitoli dodici, tredici e quattordici della prima lettera ai Corinzi resta in proposito esperienza eloquentissima. Essi iniziano parlando dei doni spirituali e della loro varietà. I carismi, per quanto  provengano tutti da un unico Spirito, suscitano delle differenze tra credenti. Vi è il dono delle lingue, quello di compiere i miracoli o di proferire profezie e così via. Qualcuno ha questo qualcun altro quello. Uguaglianza e diversità sembrano di nuovo contendersi il campo. Anche qui la risposta, sulle prime, pare conformarsi al linguaggio dell’utile: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito… a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1Cor 12,7). Questa prospettiva sembra ulteriormente rafforzarsi con il paragone del corpo proposto subito dopo; tuttavia è proprio quest’immagine corporea  a rovesciarsi come un guanto e a mostrare tutta la diversità che c’è tra Paolo e l’organicismo: dove ci sono dei doni gratuiti non ci può essere ferrea subordinazione a un insieme.

Il corpo ha molte membra e  tutte sono chiamate a essere reciprocamente solidali così avviene anche in Cristo. Il paragone con il corpo è fisicamente dettagliato, tuttavia, emancipandosi da ogni  rigore anatomico, Paolo afferma  che «le membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre» (1Cor 12,22-24). Se così si potesse dire in Paolo il primato spetta ai piedi non alla testa (si tenga presente che in questo paragone Cristo è la totalità del corpo non il suo capo: «voi siete membra di Cristo» cfr. 1Cor 6,15).

Paolo non sembra completamente soddisfatto di questo primo chiarimento e si interroga di nuovo sul senso di quella diversità di doni che rende qualcuno apostolo, altri maestri, profeti, operatori di miracoli, parlatori di lingue, autori di guarigioni; perché tanta varietà? Qui il discorso muta registro: «Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte» (1Cor 12,31). I doni spirituali più alti sono quelli volti a esortare, confortare, edificare la comunità (cfr. 1Cor 14,4) non già quelli diretti a lodare Dio o a edificare se stessi; vale a dire sono quelli indirizzati verso coloro che devono essere resi partecipi dei doni che non hanno (ed è esattamente su questo sfondo che suona particolarmente stridente la discriminazione riservata in questo contesto alle donne, cfr. 1Cor 14,34-35).

A dirlo più di ogni altra considerazione  è  proprio la «via migliore». Si tratta dell’agape (l’amore), realtà che si trova assai più dalla parte dei «piedi» che da quella della «testa». Le peculiarità attribuite all’agape sono infatti poste all’insegna della capacità di sopportare relazioni umane imperfette; essa è lenta all’ira in quanto estranea a ogni impazienza, è benigna e priva di invidia, non si vanta né si gonfia non è ambiziosa, non cerca quanto non è suo, non si irrita né pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma congioisce per la fedeltà, tutto sopporta, tutto crede, tutto spera, in tutto resiste (cfr. 1Cor 13,4-7). In essa vi è una costante nota di dolce ma non disarmata cedevolezza che contraddistingue le relazioni interpersonali improntate alla necessità di non lasciarsi vincere da una negatività pronta a insidiare i rapporti dell’uomo con il prossimo suo.

 L’amore è il criterio per dare consistenza e gerarchia  ai doni dello Spirito i quali perderebbero ogni senso  se non ci fosse l’agape: «se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli e non avessi l’amore  sono un bronzo che risuona…e se anche avessi il dono della profezia, ma non avessi l’amore non sono nulla» (1Cor 13,2). Di contro l’amore non ha bisogno di alcun carisma per essere in se stesso la «via migliore».                                                                                                                                                                                                                      Piero Stefani

Dai diritti ai carismi (07.11.04)ultima modifica: 2004-11-06T10:20:00+01:00da piero-stefani
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