La speranza tra utopia e storia (19.09.04)

Il pensiero della settimana (s.n.)

 

 (articolo di prossima pubblicazione sulla rivista Gioventù evangelica)

 

Vi fu un tempo  in cui si credeva che la storia del pensiero fosse un specie di collana  di perle: c’era un filo che le legava e il tutto assumeva una forma chiusa e definitiva. Oggi non è più così. I passaggi si sono fatti più discontinui ed è ritenuta pretesa ingiustificabile  ricomporli in  unità. Tuttavia a volte riflettere su alcune sequenze può avere ancora una sua pertinenza. Ciò vale anche per la storia della speranza. Sperare comporta guardare in avanti; in certi casi però è bene voltarsi indietro per cercare di comprendere i modi in cui gli uomini hanno concepito questa porta dischiusa verso il futuro.

Per pensare bisogna avere fiducia nella ragione, ma per farlo in modo maturo occorre individuarne anche i limiti. Questo atteggiamento si definisce critica. Esso, a fine Settecento, raggiunse con Kant i suoi massimi vertici. Indagando con occhio acuto l’essenza della natura umana il celebre filosofo si rese conto che, alla fine, le questioni determinanti di tutta la nostra esistenza si riducono  a tre: che cosa posso sapere, cosa debbo fare, in che cosa ho il diritto di sperare. Queste domande formulate in modo così piano ricevono un trattamento filosofico rigorosissimo.  Ognuna di esse va affrontata nella sua autonomia; tuttavia si può ben affermare che tra esse la questione più complessa è  quella che si occupa della speranza. La prima domanda è infatti solo teorica e speculativa, la seconda solo pratica, mentre la terza si collega a entrambe le componenti. Per sperare non basta sapere semplicemente come vanno le cose, né solo impegnarsi nell’agire in modo giusto. È necessario trovare il punto di tangenza tra essere e dover essere. Come dice Kant mentre il sapere giunge alla conclusione che qualcosa è poiché qualcosa accade, la speranza conclude che qualcosa sia poiché qualcosa deve accadere.

La speranza non può appoggiarsi solo sulla descrizione della realtà e non può neppure limitarsi a compiere un dovere fine  a se stesso: essa è indirizzata verso un dover essere chiamato a diventare reale in virtù di una forza non totalmente sotto il nostro controllo. Anche se la si pensa come un progetto, la speranza non è paragonabile ai programmi la cui realizzazione dipende in massima parte dall’azione di chi ora li sta mettendo in pratica. Il farsi della speranza non è paragonabile al processo che porta la materia prima a diventare manufatto. La clausola in base alla quale qualcosa sarà perché qualcosa deve accadere sta a indicare proprio questa differenza. Il progetto è ovviamente sulla carta, esso ancora non è nella sua pienezza, tuttavia il suo diventare reale è connesso, per la massima parte, a quanto si fa e non quel che deve accadere. Vi è speranza solo quando si dà spazio a una realtà che non dipende che in parte – piccola o grande che sia – dal proprio agire. Accantonando per un momento Kant si potrebbe dire che questa componente trova una sua perfetta formulazione nell’espressione tedesca, nata molto prima dell’era della tecnica e delle biotecnologie, che definisce l’essere incita con la frase, in der Hopfnung sein («essere in speranza»). Non si dà concepimento senza azione interumana, tuttavia la crescita del concepito non dipende  da quanto si può fare di propria volontà.

Lo speranza si situa nello spazio posto tra l’agire e la meta che l’opera si prefigge di conseguire. Quando questo salto è molto grande il fine può apparire utopia. L’esito è quanto vi è di più giusto, ma non si riesce a individuare chi possa colmare il lato mancante della nostra azione, quale sia la forza  in grado di garantire che quanto deve essere effettivamente sia. Per questa ragione la pace messianica, allorché (come dice Isaia, 2,1-5), le armi saranno convertite negli  strumenti del buon operare umano, è apparsa a molti realisti appunto utopica. La storia parla il linguaggio della guerra o al più delle tregue,  non quello di una pace definitiva che non conosce tramonto.

Verso la fine della sua vita Kant, riprendendo spunti già elaborati da altri, scrive un piccolo trattato dal titolo ambizioso, Per una pace perpetua. Quelle pagine, dunque, non si limitano a individuare  le modalità di tregue prolungate che possano garantire una tranquilla convivenza tra gli stati: esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione normale e permanente per tutta l’umanità. Il libretto però non ha l’andamento del sogno, al contrario assume piuttosto la veste di progetto fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Nel nostro procedere non è necessario ripercorrere queste proposte, ci basta  ribadire che esse sono presentate come idee razionali e non già come fantasie, per questo possono diventare un modello. Nelle ultime righe di questa sua opera Kant scrive: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico [vale a dire attuare le condizioni che consentono di stabilire un effettivo ed efficace diritto internazionale], anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota». Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. Proprio l’aver rinunciato a una definitiva tangenza evidenzia il carattere laico e progettuale del pensare di Kant. In questo ambito concettuale non si può più sperare alcuna irruzione dall’esterno di un evento messianico. Tuttavia l’operare umano non può andare al di là di un’approssimazione all’infinito. La pace perpetua conserverà sempre l’aspetto  di un’ideale ancora da realizzare.

A molti pensatori del XIX sec., a cominciare da Hegel, questo modo di procedere non sembrò né razionale, né realistico. L’idea appariva davvero vuota e non solo in relazione alla pace. Il vero punto di incontro tra l’agire umano e quanto accade perché deve accadere  non è la speranza: è la storia. Il grande bacino di raccolta di tutte le acque lo si trova lì. I rivoli delle azioni di individui, collettività e stati scorrono inevitabilmente verso il gran mare della storia che li rimescola facendone un tutt’uno. Ogni fiume perde la propria specificità per realizzare la sua destinazione più autentica: fornire il proprio contributo perché si realizzi l’immensa e unitaria distesa delle acque. Nella sua accezione più  vigorosa e vera il  termine «storia» va sempre coniugato al singolare. Tenendo conto di ciò il pensoso sguardo di Hegel si rivolse dunque al presente e  al passato (dal mare ai fiumi), non al futuro. I confini del mare non si possono tracciare, né conoscere in modo preventivo. La filosofia non può prevedere il futuro, il suo compito (teoretico) è di comprendere il presente e il passato. Assieme allo slancio utopico, in tal modo è riposto nel cassetto anche ogni senso forte legato al dover essere. Possiamo avere grandi ideali, ma essi da soli non ci garantiscono che diverranno realtà. A darci ragione deve essere in primis la storia. Ciò però può avvenire solo in un modo: se noi stiamo dalla sua parte. La storia ci dà ragione solo se noi diamo ragione ad essa.

Nel corso dell’Ottocento  a qualcuno apparve che la meta ultima della storia più che come pace perpetua fondata su un diritto internazionale, dovesse essere pensata come l’avvento di una società giusta. È vano parlare di pace là dove vi sono ricchi che sono tali in virtù del loro sistematico sfruttamento del lavoro dei poveri. È ingannevole parlare di uguaglianza formale di diritti politici là dove la disuguaglianza sociale celebra i propri trionfi. L’affermarsi di una società giusta e ugualitaria doveva spogliarsi di ogni coloritura utopica, né poteva assumere l’aspetto, insoddisfacente, di tangenza all’infinito. Quell’esito  doveva essere fondato solidamente sulla storia, la quale era dalla nostra parte appunto perché noi siamo dalla sua. Marx e  il socialismo furono le punte di diamante di questo modo di pensare e di agire.

Molti e non lievi furono le differenze di intendere i modi in cui la storia avrebbe confermato questa prospettiva. Per alcuni tale esito fatale era a tal punto iscritto nell’ordine delle cose che bastava attendere che il sistema capitalista crollasse a motivo delle sue insanabili contraddizioni interne; per altri occorreva passare invece attraverso le doglie di una rivoluzione violenta. Per tutti la storia avrebbe comunque dato loro ragione e  torto agli altri. Milioni di persone hanno ritenuto che davanti a loro splendesse realmente il bel sol dell’avvenire. Per questo hanno vissuto e combattuto.

Nel XX sec. alcuni stati hanno sperimentato quello che si è definito il socialismo reale. Il potere è passato in quelle mani, ma la società giusta non si è realizzata. Per un certo periodo si è detto che si trattava di un’epoca di transizione e che a poco a poco le società socialiste avrebbero dimostrato la loro solidità e la loro superiorità storica. L’avvenire era ancora da quella parte. Verso lo scadere del secolo contraddizioni insanabili e collassi interni hanno travolto i sistemi socialisti e non quello capitalista. Il socialismo reale è crollato e la storia gli ha dato torto. Con esso sembra definitivamente tramontata anche la prospettiva di poter conseguire una società giusta. Tuttavia poiché il nesso tra giustizia e pace appare ancora  inscritto nell’ordine delle cose, la mancanza del primo termine comporta anche quello del secondo: a essere permanente è la guerra non la pace.  A molti questa prospettiva appare non solo inaccettabile, ma anche  via  destinata a sfociare in un suicidio collettivo. Ecco allora che ci si interroga se davvero la nascita, lo sviluppo e la scomparsa del socialismo reale abbiano costituito la fine senza rimedio di ogni speranza di conseguire una società giusta. Si potrebbe rispondere in modo affermativo, aggiungendo però che ciò vale per quel tanto in cui il socialismo si è appoggiato sulla storia ed ha affidato a essa il compito dell’ultima conferma. Chi crede di avere ragione dalla storia non ha scampo quando essa gli dà invece torto. L’ideale è crollato per quel tanto che si è voluto presentare come reale.

Il nesso tra pace e giustizia e la volontà di non rassegnarsi a società profondamente e strutturalmente ingiuste non sono però tramontate. Tuttavia non siamo più neppure sicuri che questa speranza possa assumere la veste, a un tempo concreta e incompleta, di tangenza all’infinito. Con tutto ciò ci sembra ugualmente  un oltraggio consegnarla al novero delle idee vuote. Non è solo la mancanza in Kant del nesso tra pace e giustizia sociale che non  consente più ai nostri giorni di riproporre integralmente quel pensiero e tuttavia ci appare ancora pertinente e attuale definire la speranza in questi termini: qualcosa sarà poiché qualcosa deve accadere.

Piero Stefani

 

La speranza tra utopia e storia (19.09.04)ultima modifica: 2004-09-18T10:50:00+02:00da piero-stefani
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