Regno-Camaldoli (12.09.04)

Il pensiero della settimana (s. n.) 

Meditazione pronunciata il 12 settembre a Camaldoli nell’incontro organizzato dalla rivista il Regno: “Dove dimora il tuo Nome, Gerusalemme? Conflitti, dolore, riconoscimento in nome della religione” 

 

 

Il soggetto sottinteso nella citazione posta a titolo di questa meditazione è il nome più caro a ogni cristiano: Gesù. È lui che, nel momento decisivo del proprio cammino, indirizza i passi in quella direzione. È un atto che gli costa. Non ci si può avviare a cuor leggero verso la città in cui la propria vita giungerà al termine. Non si tratta di un luogo come gli altri e non è una sorte come le altre. La lettura del testo non permette alcuna incertezza. Tenendo conto dell’originale, lo si potrebbe rendere pressappoco così: «Accadde, mentre stavano per compiersi i giorni della sua assunzione, che egli rese duro il proprio volto per andare verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Ogni parola è in se stessa eloquente; la loro pregnanza però diviene ancora maggiore se le si inserisce in un contesto via via più ampio.

 

L’esito della vita di Gesù è espresso con la parola «assunzione» (anàlēmpsis); in tutto il lessico neotestamentario essa compare solo in questo passo. Si sarebbe tentati di dire che quello che attende Gesù è un unicum, un apax. Invero un destino messianico di rapimento al cielo non era ignoto al mondo giudaico. Secoli dopo in relazione a Gesù questa eventualità sarebbe stata prospettata nel Corano (cf. V, 157-158). Sono versi in cui non solo si parla di  un sosia che viene messo in croce al posto di Gesù, ma nei quali  si dichiara altresì che Dio innalzò a sé il figlio di Maria. In effetti in seno al  giudaismo l’innalzamento al cielo di una figura messianica era attestato nel cosiddetto movimento enochico (cf. in particolare 1Enoch, 37-71 e Il libro Parabole di Enoch).  Secondo Luca però la vita di Gesù a Gerusalemme non termina in questo modo. Egli  non passò immediatamente dalla croce al cielo. Prima di salire dovette scendere nelle viscere della terra. Solo le ore del sabato trascorse da Gesù nel sepolcro (Lc 23,54-55) resero davvero unici i giorni che si stavano per compiere a Gerusalemme.

Poco prima di introdurre questo momento di svolta del suo vangelo, Luca aveva narrato l’episodio della trasfigurazione. Unico tra tutti gli evangelisti egli aveva affermato che sul monte con Mosè ed Elia apparsi nella loro gloria Gesù parlava del suo «esodo» (exodos) che stava per compiersi a Gerusalemme (Lc 9, 31).Quanto deve avvenire nella città di Davide oltre che con «assunzione» è espresso anche e soprattutto con la parola «esodo», termine ricco di profonde risonanze salvifiche ma anche evocazione della necessità di passare prima attraverso l’angoscia della schiavitù e della sofferenza. Come avrebbe detto il Risorto sulla via di Emmaus, il Cristo prima di entrare nella sua gloria doveva patire (Lc 24,26).

 

Incamminandosi verso la città Gesù sapeva cosa gli sarebbe capitato, per questo motivo rese duro il proprio volto. L’espressione non si limita a indicare  risolutezza, anche se quest’ultima  indubbiamente ci fu. Chi lo proferì era all’altezza del detto stando al quale nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al regno di Dio (Lc 9,62). Tuttavia i richiami biblici legati a quel viso fattosi duro come pietra sono anche altri. Il rotolo del profeta Isaia contiene i cosiddetti canti del «servo dl Signore» (Is  42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Essi alludono a una figura misteriosa non facile da interpretare nel suo significato originario. Una caratteristica è  comunque certa: si tratta di un personaggio che ben conosce  il patire (Is 53,3). In un brano di questi canti si legge: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la mia faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso» (Is 50,6-7). Il volto indurito non è quello della spietatezza di chi colpisce quando c’è da colpire; al contrario è espressione legata a un subire che non significa resa e a un patire che può sfociare in compimento in virtù del Dio che ci assiste. I suoi seguaci quando si incamminano verso Gerusalemme non dovrebbero mai dimenticare che Gesù Cristo vi andò in questo e non in altro modo. Nella prova occorre resistere, ma il vero aiuto viene dal Signore.

 

Da quando, senza più voltarsi indietro, Gesù si diresse verso la città di Davide nelle sue preoccupazioni avrebbe acquistato sempre più peso la connessione posta tra Gerusalemme e la generazione dei suoi contemporanei. In lui si farà sempre più bruciante l’angoscia sia di essere segno di contraddizione (cf. Lc 1,33) sia di non riuscire a impedire che la sciagura si abbatta su quanto vi è di più caro. Gesù però è dominato anche dalla spinta interna perché tutto quel che deve avvenire avvenga presto: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse acceso. C’è un battesimo che devo ricevere: e come sono angosciato [o piuttosto “coartato”, synechomai] finché non sia compiuto» (Lc 12,49). Subito dopo queste parole Luca inserisce  quelle legate alla discriminazione: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione» (Lc 12,51); a loro volta seguite da altre che accusano la sua generazione di essere ipocrita in quanto sa leggere i segni atmosferici ma non sa giudicare il kairòs che le si prospetta: «Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo (kairòs) non sapete giudicarlo?» (Lc 12,56). L’autentica capacità di conversione esige di saper distinguere i tempi e di essere capaci di individuare i momenti particolari che non torneranno mai più. Si sarebbe tentati di affermare che, con le grandi varianti del caso, ciò vale anche per le relazioni interumane, comprese quelle politiche. Vi sono circostanze che bisogna saper cogliere, tempi che occorre individuare e afferrare. Se passano diviene tardi. In ogni caso in Luca i tre momenti dell’ansia, della divisione e della mancanza di discernimento sono tra loro fortemente intrecciati. L’angoscia di Gesù di dover essere battezzato nella croce, la discriminazione apportata dalla sua parola e l’incapacità di saper leggere i segni dei tempi da parte della sua generazione formano quasi un tutt’uno.

 

La croce è  tanto completamento quanto fallimento della predicazione del regno che Gesù rivolge ai suoi contemporanei e a Gerusalemme. Per questo egli poteva morire solo in quella generazione e in quella città (cf. Lc 17,24): «è necessario che io oggi e domani e il giorno seguente vada per la mia strada, perché non accada che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti, quante volte ho voluto raccogliere  i tuoi figli come  una gallina la sua covata sotto le sue ali e voi non avete voluto» (Lc 13,33-34). La croce per Gesù è l’esito anche di questo non ascolto. Tuttavia non per questo la misericordia e il perdono sono possibilità definitivamente tramontate.

Per Gesù completamento della propria missione, rifiuto e lamento su Gerusalemme si stringono in un sol nodo. Là dove tutto si smarrisce tutto si completa: chi perde la propria vita la salverà e chi la vuole custodire la perde (Lc 9,24). Il profeta muore perché la sua parola che chiama alla conversione non è ascoltata. La sua morte perciò è connessa anche alla distruzione di chi non ha prestato ascolto. È stato infatti proprio quel rifiuto a  non impedire che giungesse la rovina. Nella croce vengono assunti l’uno e l’altro aspetto. In essa però tutto giunge a compimento e a salvezza. Luca espone la missione di Gesù  tenendo presente il  messaggio e il linguaggio profetico che invita alla conversione; tuttavia la croce è più alta della profezia. Grazie a essa la via del pentimento e del perdono è aperta fino all’ultimo, al di là di ogni tempo misurabile e umanamente accessibile. Questa prospettiva è plasticamente presentata nella figura,  propria del solo Luca, del «buon ladrone» a cui sono dischiuse le porte del cielo quando tutto sembra definitivamente perduto (Lc 22,29). Questo può avvenire perché Gesù, fino all’ultimo, si prende cura anche di coloro che lo hanno respinto.

Solo Luca afferma che Gesù, quando già saliva verso il luogo detto il Cranio, rivolse, alle donne che si battevano il petto per colui che stava andando a morire, queste parole: «Figlie di Gerusalemme, piangete su di voi… Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del secco?» (Lc 23, 27-31). Il legno verde è Gesù, quello secco Gerusalemme e la sua generazione. I destini di Gesù e della città non si disgiungono, al contrario essi restano legati fino all’ultimo. La croce connessa all’adempimento di una missione comporta sempre pensare anche a coloro che respingono quanto è loro offerto.

 

Questa preoccupazione è tutta raccolta nelle prime parole pronunciate da Gesù in croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).  Perdonare è l’ultima possibilità per dischiudere la via della riconciliazione dopo il rifiuto, dopo la catastrofe,  dopo la violenza, dopo la morte? Detto dalla croce, il perdono è anche questo. Tuttavia neppure qui tutto si scioglie. In realtà il perdono, parola tornata a riempire negli ultimi anni anche la scena pubblica e presentata a volte come chiave capace di dischiudere ogni cuore, è anch’esso legato a precise condizioni; la prima  fra tutte è di incontrarsi con il pentimento. In Luca Gesù non perdona di persona. Pur essendo vittima e pur non avendo sensi di vendetta, il crocifisso sapeva che il segreto del perdono non era tutto nelle sue mani. Dalle sue labbra uscì non un «vi perdono» nobilmente umano, bensì una preghiera rivolta al Padre. In quel contesto l’espressione «che non sanno quello che fanno» allude al non ascolto delle parole che chiamano alla conversione. Questa clausola non va intesa come attenuante che sminuisce la colpa di chi agisce in maniera inconsapevole. Al contrario, essa attesta che quei cuori non potevano dischiudersi al pentimento proprio perché avvolti nell’inconsapevolezza dell’azione che stavano compiendo. «Non sanno quello che fanno»: un tema drammaticamente aperto davanti alla nostra generazione. L’invocazione  «Padre perdona loro…» indica che neppure la vittima può pienamente perdonare in prima persona i colpevoli se la sua offerta non si incontra  con il pentimento. Anzi, pure se ciò avesse luogo non è detto che tutto possa essere risanato. Se infatti la vittima muore, ai responsabili di quella morte è preclusa la via della riparazione, cioè l’unico atto che può portare a compimento la dinamica nata dall’incontro tra pentimento e perdono. In questo mondo non è sempre possibile che avvenga la riconciliazione tra vittime e carnefici. L’appello alla trascendenza di Dio pronunciato da Gesù («Padre perdona loro…») va colto in questa luce: la croce piantata di fronte a Gerusalemme invoca e nella fede attua un altro kairòs, quello del perdono del Padre.

 

Dopo aver assistito a quella morte le folle accorse per vedere (e non per udire; furono mosse dalla curiosità e non dal desiderio di ascoltare la parola che chiama a conversione) tornarono indietro battendosi il petto (Lc 23, 48). Il pentimento giunge troppo tardi. Questo insanabile ritardo può essere smentito solo se chi muore, risorgendo, diviene il Vivente. Sul piano della storia del tempo, del chronos misurabile e irreversibile, non tutto si riscatta. Molti credenti e non credenti dovrebbero essere consapevoli che il loro battersi il petto è, per alcuni aspetti, avvenuto drammaticamente troppo tardi e a prezzo di troppe vittime. Ciò non vuol dire che sia inutile. Bisogna però prendere le distanze dall’inaccettabile convinzione secondo cui tutto può essere pienamente risanato anche lungo i tempi del nostro vivere. Nella storia e per la storia le vittime restano tali. A ogni generazione sul piano storico sarà chiesto conto di tutto.  Gerusalemme sarà circondata, calpestata, distrutta (cf. Lc 19, 43-44). Ma oltre il piano del chronos storico si dischiude il tempo della misericordia trascendente in Dio in Gesù Cristo: «Padre perdona loro…». Con questo riferimento si lascia il tempo e si entra nell’eschaton. Non si tratta solo dell’aldilà, esso può irrompere anche  entro questo mondo e diventare kairòs. Quello fu il tempo della croce e della mattina di pasqua, tempi  impossibili da racchiudersi dentro assi puramente cronologici.

 

A Gerusalemme sarà chiesto conto di tutto; ma la predicazione della conversione e della misericordia rivolta alle genti non può avvenire che partendo da quella città. Anzi, coloro a cui è stato affidato l’annuncio dovranno restare là fino a quando lo  Spirito non darà loro la forza della testimonianza e della predicazione. Secondo Luca, queste sono le ultime parole lasciateci da Gesù risorto, il frutto più pieno del suo «esodo»: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi resterete in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,46-49). Restare a Gerusalemme per annunciare il perdono in nome di Gesù e con la forza dello Spirito è componente costitutiva della vocazione cristiana.

Piero Stefani

 

 

 

Appendice.

Tenendo conto di antiche sollecitazioni, mi trovo nelle condizioni di dovervi comunicare l’uscita, quasi contemporanea, di ben due miei libri.

Antigiudaismo. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp.  338;  € 20.000 (testo piuttosto impegnativo di carattere più teologico che storico).

La Bibbia, n. 100 della collana “Farsi un’idea”, il Mulino, Bologna  2004, pp. 137, € 8, testo introduttivo e divulgativo.

Regno-Camaldoli (12.09.04)ultima modifica: 2004-09-11T10:53:00+02:00da piero-stefani
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