5 – I tempi della cattedrale (28.12.03)

Il pensiero della settimana n.5

 

Nella pietre della cattedrale di Ferrara sono incisi due tempi. La facciata, composita eppur unitaria, parla della historia salutis. Dai preannunci profetici alla nascita di Gesù; dal popolo dell’Antico a quello del Nuovo Testamento; dalla pasqua al giudice  risorto e piagato; dalla dannazione alla beatitudine. Qui l’arte non può imitare la natura. Il fianco rivolto a sud con la porta dei mesi esprimeva invece la ciclicità di un tempo che annualmente si ripete, fatto di stagioni, mesi e giorni. Di questo ingresso si scorgono solo i resti; le formelle però si sono salvate e sono eloquenti. Qui le opere dell’uomo si incontrano con  ritmi scanditi dal suolo, dal sole e dalla pioggia. Per tutti i giorni in cui esisterà la terra, seme e raccolto, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno (Gen 8.22), non avranno riposo.

Questi due tempi tra loro tanto diversi sono raffigurati l’uno accanto all’altro nella cattedrale perché  il ciclo liturgico celebrato dalla comunità raccolta in quell’edificio ripercorre i grandi momenti del cammino della salvezza secondo la scansione delle stagioni, dei mesi, dei giorni. Eppure non è solo così. Resurrezione e giudizio non rientrano in questo schema. Radicata nel passato della mattina di pasqua e proiettata nell’avvenire dell’ultimo giorno, la vita restituita ai morti non può essere pienamente racchiusa nel tempo ripetitivo. Anche per questo la si ricorda ogni sette giorni. Per quanto ci si possa appellare al numero dei pianeti conosciuti nel mondo antico, il sette non trova precisa corrispondenza nelle scansioni temporali misurabili con i movimenti  degli astri. Le settimane non si incastrano bene negli anni: se si vuole tenere fissa la data, bisogna rinunciare a farlo per il giorno della settimana e viceversa. La domenica, primo giorno dopo il sabato (parola derivata dal verbo  shavat, cessare), è permeata da tensioni e speranze che vanno al di là delle stagioni, dei mesi e dei giorni.

Nelle formelle il mese con cui inizia l’anno non è rappresentato da alcun lavoro stagionale: il suo simbolo è un pagano Giano bifronte: il volto vecchio (singolarmente rivolto verso destra) guarda al passato, quello più giovane al futuro. Quest’immagine non parla né di domenica, né di lavori legati alle stagioni, suggerisce piuttosto di pensare al confronto esistenziale tra il vissuto che si trova alle nostre spalle e l’indefinito futuro che si trova di fronte a noi. Si avrebbe voglia di commentare quella formella rileggendo il leopardiano Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggero. Questa breve pagina dà forma drammatica a un pensiero contenuto nello Zibaldone (VIII,229); in esso si afferma che tutti dichiarano che, se fosse loro consentito, sarebbero disposti e lieti di tornare a vivere, a patto però di non rifare più la vita che si è fin qui avuta. Insomma, un’idea non molto diversa da quella che si trova sulle labbra di molti quando cominciano le proprie considerazioni dicendo: «se rinasco un’altra volta…». Partendo da questa considerazione, nel dialogo si deduce che: «Quella vita che è cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura».

Il Giano bifronte posto nell’animo di ogni persona è molto diverso a seconda della stagione dell’esistenza in cui ci si trova. Gli anni che ci sono alle spalle in questo caso sono determinanti. Con tutto ciò il ragionamento leopardiano è troppo condizionato dalla centralità assunta dal tema della felicità. Questa opzione gli rende possibile scorporare e contrapporre le due facce  Non sono parole di basso profilo sperare che i due volti possano essere presi nella loro simultaneità, augurare  che quello diretto al passato possa attestare che ha avuto senso vivere  proprio perché quello proiettato al futuro ha fiducia di poter trasmettere ad altri i valori e le speranze che si sono ricevuti. Una volta questa dinamica la si esprimeva con una parola meritevole di essere ripensata: tradizione. Se con essa ci si  riferisce al folclore vengono in mente le stagioni; ma se la si pensa più profondamente essa forma una catena di cui ha bisogno pure la historia salutis (cfr. 1Cor 11, 23; 15,3). Quanto al tempo legato all’esistenza personale, il Giano bifronte simboleggia il compito di ricevere e di dare; tema che va coniugato più sotto la categoria della responsabilità che in quella direttamente rivolta alla felicità, un dono che può giungere anche quando non la si cerca.

 

Piero Stefani

5 – I tempi della cattedrale (28.12.03)ultima modifica: 2003-12-27T15:50:00+01:00da piero-stefani
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