Il cristiano di fronte alla violenza (04.10.03)

Il taccuino di Piero Stefani 

 Dal 1991 il Centro Ecumenico Europeo per la Pace e l’Ufficio Ecumenismo e Dialogo della Arcidiocesi di Milano organizzano un ciclo di incontri intitolato «Lettura ecumenica della Parola». Quello di quest’anno, svoltosi la settimana scorsa, aveva per tema «Il cristiano di fronte alla violenza e alla guerra».

Tutti i lavori hanno indicato a un tempo la pertinenza e l’improprietà della formulazione. Essa non corrisponde al vero per un motivo nudo ed elementare: il cristiano non vive in alcuno spazio privilegiato e non gode di alcuna extraterritorialità. Anche per lui la violenza non è una realtà che gli sta semplicemente davanti. La persona di fede, come tutte le altre, deve far i conti prima di tutto con la violenza che è dentro di lui e poi misurarsi con quella a cui è, più o meno attivamente, compartecipe. Eppure l’espressione ha anche una sua validità; infatti il cristiano, come ogni altro, si trova  a volte ad essere spettatore di una violenza che si dispiega davanti a lui sulla corrusca scena del mondo.

Il paradosso del credente in questi casi può esprimersi dicendo che è tenuto a discernere, schierarsi, impegnarsi astenendosi però dal giudicare. Questi difficili requisiti gli sono richiesti dal suo essere a un tempo abitatore del mondo e persona di fede. Il discernimento di quanto accade non può essere compiuto una volta per tutte. Qui non esistono assoluti affermabili a priori, neppure quello della più integrale nonviolenza. La faticosa, provvisoria, incerta lettura dei fatti deve sfociare in uno schierarsi. La responsabilità si sostanzia nel prendere partito. I danni prodotti  dalla scelta della neutralità assunta non di rado dai cattolici meriterebbero un attento studio. Una sedicente equidistanza non è quasi mai una virtù. Ciò vale tanto nei conflitti interpersonali quotidiani, quanto nei casi storici di maggior portata. Una delle frasi più forti pronunciate dai papi contro la guerra nel corso del XX secolo è quella di Benedetto XV che qualificò «inutile strage» l’immane macello che stava pervadendo l’Europa, per porvi fine occorreva stipulare una pace intesa come puro ritorno allo status quo ante. La prima guerra mondiale era allora cominciata da due anni, per i belligeranti accettare quella prospettiva avrebbe significato davvero dichiarare inutili quei milioni di morti e assumersene in prima persona la responsabilità. Nessuno allora poteva percorrere tale via. Era perciò inevitabile che quella presa di posizione neutrale fosse politicamente priva di incidenza.

Sostenere che tutti quando fanno la guerra hanno torto è una affermazione che, dal punto di vista di principio, può avere una sua indiscutibile validità; tuttavia, se estesa in maniera generale, essa serve a ben poco. A volte va affermato che una parte ha meno torto dell’altra. Questa discriminante è decisiva, né comporta la riproposizione, in genere mai calabile nelle situazioni concrete, degli astratti parametri connessi alla obsoleta teoria della guerra giusta. Nessuna guerra è giusta; ma non tutte sono equiparabili.

Il discernimento è richiesto, lo schierarsi e l’impegnarsi non sono opzionali; il credente però deve sapere che il definitivo giudizio sulla storia e sugli uomini è solo di Dio. Quando la pratica della violenza e persino quella della nonviolenza si accompagnano  alla formulazione di giudizi definitivi si esce dalla fede e si entra nell’idolatria.

 

 

Il cristiano di fronte alla violenza (04.10.03)ultima modifica: 2003-12-25T11:00:00+01:00da piero-stefani
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