Il taccuino di Piero Stefani
Tempo di finire. La scuola è terminata e alcuni esami stanno per concludersi. Le attività sociali delle parrocchie e delle associazioni sono anch’esse in fase di chiusura. La stagione calcistica – evento fondamentale nella vita del nostro paese – ha già emesso i suoi verdetti. Iniziano le vacanze, ma esse sono marcate proprio dal loro venir dopo il tempo di lavoro. Perciò non contraddicono il senso di chiusura: l’apertura delle stagioni riguarda molto più gli operatori turistici che i frequentanti di mari e monti.
L’idea di cessare è profondamente ambivalente: può significare completare o può voler dire semplicemente interrompere, “staccare”. Mettere la parola fine a un’opera vuol dire giudicarla completa e porne in luce la perfezione, sia pure relativa. Nulla vi è più da aggiungere o da togliere. Terminare però può voler dire semplicemente “basta, non ne posso più, sono stanco”; in tal caso prevale la cifra dell’incompletezza, se non quella della resa. Il tal caso cessare significa arrestare un’attività senza che essa abbia condotto a una meta.
Il bilancio è una dimensione non limitata all’ambito contabile: è un atto che, in modo implicito o esplicito, si prospetta ogni qual volta si giunge a un termine. Quel momento, collocandosi in un punto finale, non può essere come tutti gli altri. Giunti lì non si può più continuare semplicemente a “vivere alla giornata”. Esso segna un passaggio da una situazione a un’altra. Sul piano esistenziale, come su quello più strettamente finanziario, rifiutarsi di fare bilanci o truccarli significa ammettere o mascherare un fallimento. Giungono tempi in cui bisogna volgersi indietro. Completare non è un atto che riguarda il futuro. Quando si guarda in avanti significa che la nostra attuale condizione è contraddistinta da una mancanza, da un “non ancora”. La speranza è cosa grande; essa però è oggettivamente legata pure a una mancanza.
La Bibbia fin dalla sua prima pagina conosce il verbo “cessare”. Lo presenta in modo alto come coronamento dell’atto creativo. In sei giorni Dio creò e ordinò, separando luce e tenebre, acque e asciutto, facendo germogliare la terra, dando vita agli animali e creando l’uomo a propria immagine e somiglianza in quanto maschio e femmina. Il succedersi delle opere dei sei giorni è contraddistinto per cinque volte dall’espressione «ecco è buono»; la sesta volta, voltandosi indietro, e vedendo quanto aveva creato, Dio cambiò formula e disse «ecco è molto buono» (Gen 1,31). Allora poté cessare. «Furono completati il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio completò nel settimo giorno la sua opera che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni sua opera che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò poiché in esso aveva cessato in ogni sua opera che Dio aveva fatto mentre creava» (Gen 2,1-3). Il cessare divino è il settimo giorno: è il sabato. A svelarlo, del resto, è l’etimo stesso: sabato deriva dal verbo shavat, appunto cessare.
La parola riposo non vi è all’inizio della Genesi quando il sabato è solo Dio. Essa è introdotta nel libro dell’Esodo (20,11), quando il sabato diviene anche un comandamento; vale a dire un precetto che va rispettato anche dall’uomo. Il riposare non rientra a pieno titolo nel modello del completamento. Esso implica la fatica di un’opera che logora anche perché resta sempre in qualche misura, piccola o grande, al di sotto di quanto avrebbe dovuto essere. «Per sei giorni lavorerai e farai tutta la tua opera…» prescrive la Bibbia (Es 20, 9). Come è possibile, si chiedevano gli antichi rabbini, compiere tutto? E rispondevano dicendo che al sabato bisogna riposare «come se» la nostra opera fosse completa. Altrove però essi avevano anche detto che, per quanto non stia a noi completare l’opera, non siamo neppure nelle condizioni di sottrarcene. Questa è vera saggezza. Il sabato per noi è sempre anche un futuro; non possiamo eliminare la componente di incompletezza che ci contraddistingue. Ciò però non significa né sottrarsi rassegnati all’operare, né precluderci momenti entro l’esistenza in cui si vive “come se “ il nostro operare possa essere dotato del senso consolante della completezza. Si tratta in ogni caso di frammenti, per noi infatti la pienezza del sabato resta consegnata al futuro della speranza.