2 – La memoria e la politica (07.12.03)

Il pensiero della settimana n. 2

 

Gli avvenimenti inducono a sospendere  per un breve tratto la riflessione sulla Parola.  L’espressione di Karl Barth che invita il credente a tener in mano la Bibbia e il giornale oggi propende per il secondo termine, senza dimenticare la voce di silenzio sottile (cfr. 1Re 19,12) del primo.

I conti con il passato l’on. Fini li ha compiuti in una sede alta, il Memoriale della Shoah che è in Gerusalemme. Il leader di Alleanza Nazionale lo ha fatto nella cornice  di una robusta inquadratura istituzionale garantitagli dall’ufficialità di una visita legata dalla sua carica di vicepresidente del consiglio e dalla presenza, simbolicamente rilevante, del presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto. Luogo,  carica  e cornice internazionale, oltre a segnare una differenza grande rispetto alla visita privata compiuta da Fini alle Fosse Ardeatine (1993), sanciscono la natura politica dell’avvenimento. Ciò vale per tutte le componenti coinvolte.  Se il coordinatore nazione di AN avesse voluto inscrivere il suo gesto in una dimensione morale, avrebbe  dovuto compiere un altro percorso: avrebbe dovuto chiedere  a Luzzatto di accompagnarlo  a  Fossoli, alla risiera di S. Sabba e infine, al termine di un lungo viaggio, avrebbe dovuto oltrepassare il cancello di Auschwitz, tenendo in mano Se questo è un uomo. Per la legge inesorabile della cronologia questa possibilità è definitivamente tramontata. Anche nella remota eventualità che questo pellegrinaggio sia davvero percorso, esso avverrebbe  inesorabilmente solo dopo.

Il punto più alto del confronto di Fini con il passato della storia italiana ed europea  è avvenuto nel contesto del presente israeliano. Il gesto è avvenuto quindi in un contesto oggettivamente sionistico. Anch’esso però declinato all’insegna della immediatezza politica e non di una riflessione culturale – assolutamente latitante nel mondo non ebraico – sul senso di lunga portata del sionismo. Si è così costituita una convergenza in cui sono confluiti il bisogno di trovare alleati sul piano internazionale da parte del governo Sharon, l’opportunità per il vice-premier di accreditarsi come un possibile  futuro presidente del consiglio (in questa ottica il gesto compiuto allo Yad wa-Shem  rappresenta una tappa di un itinerario in cui si iscrive anche la polemica contro Bossi sul voto agli immigrati) e la volontà dell’ebraismo italiano di giocare un ruolo politico immediatamente riconoscibile. Entro i limiti del politico questi eventi, come dimostrano  le reazione interne ad AN, sono dotate anche di componenti virtuose. Tuttavia esse danno pure un ulteriore contributo ad appiattire la riflessione  sull’ebraismo su un presente israeliano orientato in senso filogovernativo. Tale scelta suscita perplessità oggettive e rappresenta una fonte di non lievi preoccupazioni per il domani.

Il confronto apertosi all’interno di AN  conferma le analisi proposte prima dell’estate in riferimento al Museo nazionale della Shoah da erigere a Ferrara (legge 17 aprile 2003 n.91, Gazzetta Ufficiale 26 aprile 2003). Perciò vale forse la  pena di riproporre alcune delle considerazioni scritte allora. Lo scopo della legge è creare un «luogo simbolico per conservare nella memoria della nazione le drammatiche vicende delle persecuzioni razziali e dell’Olocausto». Il suo fine dunque è di far memoria della distruzione degli ebrei di Europa. Questa cruda formulazione – posta a titolo del capolavoro storiografico di Raul Hilberg – si incentra su tre termini: distruzione, ebrei, Europa. Nessuno dei tre deve perdere la propria specificità. Il testo legislativo ha invece scarsa consapevolezza di ciò. La legge dichiara che lo scopo del Museo è raccogliere ed esporre testimonianze sulla Shoah, assegnare premi, promuovere attività didattiche organizzando manifestazioni, incontri, convegni, mostre, proiezioni di film e spettacoli «sui temi della pace e della fratellanza tra i popoli e dell’incontro tra culture e religioni diverse». Infine si afferma che, per la ricerca e la documentazione scientifica, il Museo si avvale della collaborazione della fondazione del Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) di Milano, cui spetta anche la proposta della nomina del direttore scientifico del Museo.

Di fronte alla questione perché ricordare proprio quell’evento, il testo di legge da un lato fa riferimento a quanto c’è di più generale e scontato sia in relazione ai mezzi sia agli scopi, mentre, dall’altro, affida il coordinamento scientifico del Museo a un’istituzione  esclusivamente ebraica. I meriti culturali e civili del CDEC sono fuori discussione. Ma il punto non è questo. Un Museo nazionale della Shoah ha senso solo se sa prospettare in modo concreto ai suoi visitatori che la distruzione degli ebrei d’Europa non è né un fatto che riguarda i soli ebrei, né un semplice monito contro la sopraffazione e a favore dell’incontro tra popoli, religioni e culture. La Shoah è un evento che riguarda l’Europa  tanto dalla parte dei perseguitati  quanto da quella dei persecutori. Essa non concerne solo gli ebrei,  o coloro che li hanno coraggiosamente aiutati. Riguarda in primis tutti coloro che li hanno direttamente o indirettamente perseguitati. A più largo raggio, quell’evento impone una riflessione globale sulla civiltà (e la barbarie) europea. Che in una legge approvata nel 2003 la parola Europa non compaia neppure una volta è segno grave. Né è trascurabile il fatto che si taccia del tutto sulla natura antifascista della costituzione italiana. Nell’Italia di oggi si possono così dare contemporaneamente tanto l’istituzione del Museo della Shoah (da tutti approvata, compreso AN nelle cui fila allora non sorse alcuna voce dissenziente) quanto un declassamento sempre più evidente del 25 aprile.

Esprimere sensi di solidarietà nei confronti di vittime ormai lontane non costa nulla a nessuno, la memoria qui non è più selettiva, ovverosia non è affatto memoria. Ben altro sarebbe invece il discorso se, accanto alle vittime, si fossero tenute presenti le  condizioni di lungo o breve termine che hanno reso possibile che la persecuzione assumesse quelle dimensioni. Le Chiese dell’Occidente cominciano ad  ammettere in modi  un po’ meno reticenti le responsabilità collegate al loro antico antigiudaismo; così facendo hanno iniziato a compiere passi nella giusta direzione. Una componente non insignificante della società civile italiana sembra invece voler trovare nella memoria soprattutto un modo per nobilitarsi ai propri occhi affossando con ciò ogni selettività e ogni richiamo imperativo. Un’altra invece la coniuga quasi esclusivamente  tenendo conto dell’immediatezza del politico. Né l’una, né l’altra sono le scelte giuste. In una sua dichiarazione Fini ha auspicato visite di studenti italiani  allo Yad wa-Shem e al futuro Museo Nazionale della Shoah. Per essere significative esse dovrebbero collocarsi in un quadro culturale ed etico diverso da quello che prevale ai nostri giorni. La mancanza, in generale in Italia e nello specifico a Ferrara, di una riflessione al riguardo è indice poco incoraggiante. Almeno in sede cittadina, in vista della giornata della memoria del prossimo 27 gennaio, qualcuno dovrebbe farsi carico di questo cruciale problema.

Piero Stefani

 

2 – La memoria e la politica (07.12.03)ultima modifica: 2003-12-06T16:05:00+01:00da piero-stefani
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