Dio si è fatto visibile (Natale 2002)

Il taccuino

 

Nel primo Prefazio della festa di Natale si legge: «perché conoscendo Dio visibilmente (dum visibiliter Deum cognoscimus), per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili». A partire dalla notte di Natale è possibile  conoscere visibilmente il Dio invisibile.

L’atto del vedere legato al «qui e ora». Esso è connesso alle determinazioni più semplici dello spazio e del tempo. Partendo da esse e dalla loro isolata limitatezza non dovrebbe essere possibile conoscere Dio. Così è infatti. Il «qui e ora» non sono in grado di dire Dio. Egli è sempre al di là di questi parametri. Eppure nel suo Figlio Egli li ha assunti. In realtà, più che sostenere che noi abbiamo conosciuto Dio in modo visibile, occorre affermare che è stato Dio a farsi conoscere visibilmente nello spazio e nel tempo. Questo vedere è quello dell’esperienza, non quello della virtualità una visibilità non legata al «qui e ora» e perciò non  connessa alla carne, al toccare, al sentire, al patire. La visibilità virtuale è astratta e ripetibile, quella connessa alla carne è concreta e tattile. Dio, attraverso il suo Verbo fattosi carne, ha assunto questo tipo di visibilità: «Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto (oraô) con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile […] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi perché siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3).

La visibilità propria del Verbo fattosi carne non può essere trasmessa attraverso l’immagine che non si tocca, che non ha bisogni, né gioie, né sofferenze. Il Verbo incarnato costituisce la perfetta antitesi alla seduzione delle immagini virtuali: «Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2Gv 7).

Questa forma di visibilità connessa all’hic et nunc non è trasmessa attraverso l’immagine, è comunicata  per mezzo della testimonianza. Il testimone (definito non a caso oculare) è propriamente colui che, rivolgendosi a chi non ha veduto, dichiara:  i miei occhi hanno visto. La sua testimonianza e anch’essa legata alla carne al «qui e ora»; non la si può sostituire con un’immagine virtuale e ripetibile. Il testimone vuole trasformare in occhi gli orecchi altrui; il mezzo con cui cerca  di realizzarlo è la sua parola. Il testimone va ascoltato, a lui bisogna prestar fede.

Carne, visibilità e testimonianza sono parole chiave del quarto vangelo. La Parola invisibile si è fatta visibile. Questo e non altro è detto nel Prologo (Gv 1,1-18).  Ciò è tutt’uno con il suo essersi fatta carne. Il verbo vedere (theomai) è introdotto  solo nel versetto (Gv 1,14) che dice il farsi carne del Verbo. Nelle strofe precedenti era già   più volte comparsa l’immagine della luce che risplende nelle tenebre (Gv 1,5). La luce fa vedere; ma in se stessa non è vista. La luce, prima realtà creata da Dio («fiat lux» Gen 1,3), precede il sole, la luna, le stelle, il mondo: le cose che si possono vedere. La luce è la precondizione della visibilità, non l’oggetto della visione. Lo stesso vale  per la Parola. Essa, che l’aveva creato, si era già fatta pellegrina nel mondo. La Parola, pur venendo in ciò che era suo non era stata né conosciuta, né ricevuta dalle tenebre (Gv 1,4.10-11). Tuttavia  essa aveva dato il potere di far diventare figli di Dio quelli che l’avevano già accolta e creduta (Gv 1,12); non si era però ancora fatta visibile.

«E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e verità» (Gv 1,14). È soltanto  assumendo la carne, diventando mondo e non solo visitandolo, che la Parola si è fatta visibile. L’espressione «abitare» (skenoô) e il termine «gloria» fanno riferimento ai passi dell’Esodo in cui si afferma il modo col quale la presenza di Dio prese dimora nel mobile santuario del deserto: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube dimorava su di essa e la Gloria del Signore riempiva la Dimora» (Es 40,34-35). La gloria vista nella Parola incarnata non ha nulla di celeste; essa non è «nel più alto dei cieli» (Lc 2,14): è nel mondo. Il Verbo fattosi carne è la Dimora piena di grazia e verità. Nel suo farsi «qui e ora», nel suo camminare nel mondo, la Parola incarnata diviene oggetto di testimonianza: «gloria come unigenito del Padre pieno di grazia  e verità. Giovanni gli rende testimonianza…» (Gv 1,15).

Questa visibilità non annulla l’invisibilità di Dio. Il Verbo fattosi visibile rivela il  Dio che resta invisibile: «Dio nessuno lo ha mai visto (oraô): proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il Verbo è l’icona fattasi carne del Padre invisibile (cfr. Gv 14,11). «Conoscendo Dio visibilmente per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili». Il Verbo incarnato è la via che conduce al Padre (Gv 14,6-7).

La Parola ora può essere vista e testimoniata nella sua carnale vulnerabilità. Ciò avvenne ai piedi della croce: «… ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso [Es 12,46]. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto [Zc 12,10]» (Gv 19,37). Colui che vede si fa testimone della carne visibile in quanto vulnerata e trafitta. Lo può fare perché egli, a differenza degli altri discepoli, è lì ai piedi della croce. La visibilità connessa alla testimonianza non è mai virtuale: essa è quella della carne, non quella dell’immagine. La sua testimonianza è legata  al «qui e ora»; ma è trasmessa perché grazie a essa si creda. Prestar fede a una testimonianza conduce a un  credere  fondato sulla parola udita, non sulla visione.

La mattina di pasqua il testimone oculare cessa di essere tale e diviene il primo credente. Quando «l’altro discepolo, quello che Gesù amava» (Gv 20,2) corse alla tomba  non c’era né corpo, né figura, né immagine, vi erano solo le  bende a terra e il sudario ripiegato. Per questo, quando entrò, «vide (eidôn) e credette» (Gv 20,8). Di fronte alla tomba vuota non è più il tempo della testimonianza, è l’ora della fede. Il discepolo amato è il primo a cui si può applicare la beatitudine additata e rimproverata a Tommaso: «Perché mi hai veduto (oraô) hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto (eidôn) crederanno» (Gv 20,29).

Per noi il Verbo fattosi carne è quello del sepolcro vuoto. Non è visto, né testimoniato: va creduto. Dio si è reso visibile, ma i nostri occhi non lo vedono. Vedono altro, saldamente inscritto nella dimensione della carne. Anche dopo l’incarnazione della Parola è il prossimo il luogo discriminante  per rapportarsi anche alle realtà invisibili: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede (oraô) non può amare Dio che non vede (oraô) » (1Gv 4, 20).

 

Dio si è fatto visibile (Natale 2002)ultima modifica: 2002-12-28T05:45:00+01:00da piero-stefani
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