411. In villeggiatura con Dio (16.12.2012)

Il pensiero della settimana n. 411

 

     Il biblista Jean Pierre Sonnet, all’inizio dei suoi corsi, impone ai propri studenti di leggere almeno due romanzi prima di presentarsi all’esame. Non tutti lo fanno e ci rimettono. In effetti, l’aridità stilistica di libri irti di tecnicismi, oltre a rendere faticosa la lettura, ostacola una comprensione empatica dei testi biblici. I volumi eruditi non vanno buttati alle ortiche, occorre però trovarvi dei contrappesi.

La forza  espressiva di tanti passi della Bibbia è straordinaria. Tuttavia a volte essa si appanna a causa di una ripetizione incapace di diventare vera familiarità. Avviene così anche nella nostra esperienza comune: le realtà nuove ci sorprendono, quelle consolidatesi negli anni ci costituiscono (ce ne si accorge subito se le si perde), le tante che si trovano nel mezzo ci annoiano.

Nel primo dei canti del «Servo del Signore» di Isaia si legge: «non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta» (Is 42,3). Con queste parole è presentato colui che, solo due righe prima, era qualificato come chi è chiamato a portare il diritto (mispat) alle genti (goyim) (Is 42,1). Se l’espressione «diritto mite» ha un referente privilegiato questo è il caso. «Canna, stoppino»; ci vuole forza immaginativa per scegliere queste figure come indice certo del rispetto e della cura riservata a un’esistenza incrinata e fumigante. Ma i meriti non vanno solo dalla parte del «Servo», anche la canna e lo stoppino hanno fornito una  buona prova della loro capacità di resistere. Quando l’aiuto è autentico, c’è sempre affinità tra chi soccorre e chi è soccorso. 

È il caso anche del signor Aurelio, il protagonista della novella di Pirandello Il vecchio Dio, il quale, caduto in miseria, faceva la propria villeggiatura visitando le chiese di Roma. Nella loro umida ombra, egli trovava ristoro.

 

Speranze, illusioni, ricchezza e tant’altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch’era, tra il buio angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un lanternino ch’egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolío della vita, e nessuno più si curava di lui.

– Non importa: Dio mi vede! – si esortava in cuor suo.

E n’era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che sgomentarlo, lo confortava.

 

La sentenza evangelica «la tua fede ti ha salvato» (Mt 9,22; Mc 5,34; 10,52; Lc 7,50; 8,44; 17,19; 18,42) non è mai così vera come quando il credere è ridotto al lumicino. Ciò avviene per tante ragioni, una delle quali è che per tutti, anche per il signor Aurelio, è divenuto più difficile aver fede.

 

«Premî di là, il signor Aurelio, non se n’attendeva; gli bastava portarsi di qua, fino all’ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto il male per volontà. Conosceva i dubbî tenebrosi accumulati dalla scienza come tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà della morte, sí per averne fatta lettura in qualche libro, e sí per averli quasi respirati nell’aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi giorni, anche per lui, credente, non potesse piú esser quello che in sei dí aveva creato il mondo, e s’era nel settimo riposato.

 

Anche chi gli viene in soccorso non è in condizione molto diversa. Quel giorno, nella chiesa, Aurelio vide un sagrestano dalla grande chioma e dalla folta e lunga barba, ma dal corpo inadeguato a tutta quella maestosità. Poco dopo il nostro protagonista si addormenta e fa un sogno.

 

Ora, il signor Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando amaramente ai meschini profitti dell’anima in questo tanto decantato secolo dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell’intatta fede dei padri, a poco a poco s’addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco che gli venne innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti seduti sul murello davanti ai gerontocomii:

– Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per Me, sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti; monterebbe anche su gli altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi, figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto nulla: tutto s’è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho creato Io prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto, come ti avevano insegnato ne’ tuoi gracili anni. Che! che! Non c’entro più per nulla Io. Le nebulose, capisci? la materia cosmica… E tutto s’è fatto da sé. Ti faccio ridere: uno c’è stato finanche, un certo scienziato, il quale ha avuto il coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i sensi il cielo, non vi aveva trovato neppur una minima traccia dell’esistenza mia. Di’ un po’: te lo immagini questo pover’uomo che, armato del suo cannocchiale, s’affannava sul serio a darmi la caccia per i cieli, quando non mi sentiva dentro il suo misero coricino? Ne riderei di cuore, tanto tanto, figliuolo mio, se non vedessi gli uomini far buon viso a siffatte scempiaggini. Ricordo bene quand’Io li tenevo tutti in un sacro terrore, parlando loro con la voce dei venti, dei tuoni e dei terremoti. Ora hanno inventato il parafulmine, capisci? e non mi temono più; si sono spiegati il fenomeno del vento, della pioggia e ogni altro fenomeno, e non si rivolgono più a Me per ottenere in grazia qualche cosa. Bisogna, bisogna ch’io mi risolva a lasciare la città e mi restringa a fare il Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico più molte, ma alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove foglia d’albero se Io non voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il sereno. Sù, sù, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo. Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora.

A queste parole, il signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La campagna! il suo sospiro! La vedeva come se vi fosse; ne respirava l’aria balsamica… – quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli occhi, stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il Padre Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora:

– Andiamo, sú, andiamo…

– Ma se è tanto che… – barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati, atterrito dalla realtà del suo sogno.

Il vecchio sagrestano scosse le chiavi:

    – Andiamo! La chiesa si chiude.

 

 

Poco  importa dell’aldilà  quando già in questa vita si va umilmente in villeggiatura con Dio, sapendo che né per lui né per chi crede in lui le sorti  su questa terra saranno magnifiche e progressive.

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

 

411. In villeggiatura con Dio (16.12.2012)ultima modifica: 2012-12-15T10:06:12+01:00da piero-stefani
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