In questa e nelle prossime due settimane riprendo il contributo apparso nella sezione «Commenti» in Papa Francesco Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, introduzione di Bruno Forte, Scholé Morcelliana, Brescia 2020, pp. 173-181. Gli altri commenti sono di M. Giuliani, M. Campanini, R. Rusconi, C. Frugoni, F. De Giorgi, S. Natoli, M. Ceruti, P.C. Rivoltella, A. Mosca Mondadori
Nella prima delle sue catechesi dedicate a «Guarire il mondo» (2 agosto 2020), papa Francesco dichiara che la cultura moderna attesta il principio della dignità inalienabile della persona nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (cfr. Fratelli tutti, n. 22). Il documento, secondo quanto sostenuto da Giovanni Paolo II, è giudicato pietra miliare lungo il difficile cammino dell’umanità e una delle più alte espressioni della coscienza umana.
Come è noto, il primo articolo della Dichiarazione recita: «Tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità». A distanza di oltre un secolo e mezzo, e avendo alle spalle due guerre mondiali, queste parole rievocano i «sacri principi» dell’89: libertà, uguaglianza e fraternità. Li dispongono però in una successione diversa: due sono collocati sulla tavola dei diritti, uno su quella dei doveri. La fraternità non è un dato di partenza indiscutibile. Non ogni essere umano è mio fratello, ma ogni persona può diventare fratello o sorella se ci si relaziona reciprocamente «in uno spirito di fraternità».
Con diverso linguaggio e fondamento (a iniziare dal riferimento biblico all’uomo creato a immagine di Dio, Gen 1, 27), un appello alla fraternità come un «dover essere» reciproco e ugualitario fu formulato anche dal Concilio Vaticano II: «Non possiamo invocare Dio Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio» (Dichiarazione Nostra aetate, n. 5). L’accento batte soprattutto su un «comportarsi da fratelli» inteso come conseguenza coerente dell’esserlo già; la fraternità si situa in un ambito definibile dal detto: «divieni quel che sei». Anche nell’orizzonte della Bibbia ebraica la declinazione imperativa della fratellanza parte, non di rado, da un «essere» espresso attraverso legami parentali (siano essi stretti, figli degli stessi genitori, o allargati) per sfociare in un «divenire» nel quale il comportamento è chiamato a mettere in pratica lo «spirito di fraternità». Occorre però avanzare una precisazione. Ai nostri orecchi il termine «fratelli» (e «sorelle») indica una situazione di fraternità (e sororità) reciprocamente paritaria. Quando il riferimento base è connesso alla generazione le cose, però, stanno in altro modo. In questo ambito si introduce, di solito, la differenza cruciale a quell’epoca, che esisteva tra il maggiore e il minore. L’asse genealogico assegna la prevalenza alla primogenitura, rispetto a ciò i «rovesciamenti» biblici («il maggiore sarà sottomesso al minore», Gen 25,23) contraddistinguono un’altra storia, basti pensare a quella archetipica di Esaù e Giacobbe (cfr. Gen 25; Os 12,2-8; Ml 1,1-4; Rm 10,10-13). I capovolgimenti però avvengono soltanto prendendo avvio da una fratellanza intesa in senso parentale. Nell’Antico Testamento il riferimento a situazioni declinate nell’ambito della parità si ha, di norma, unicamente quando l’essere fratelli attesta l’appartenenza allo stesso popolo. Tuttavia pure allora più volte si è di fronte a una sperequazione; da un lato è infatti ci si riferisce a chi si trova nel bisogno e dall’altro a chi si colloca in una posizione che gli permette di prestare aiuto. In definitiva, è lecito affermare che nell’Antico Testamento la fratellanza, lungi dall’indicare ipso facto un’uguaglianza, si confronta con la diversità se non addirittura con il conflitto. La dinamica muterà nel Nuovo Testamento ma lo farà perché l’essere fratelli non sarà più collegato in modo privilegiato a un contesto parentale.
- Caino e Abele
Negli scritti e negli interventi di papa Francesco il riferimento alla domanda retorica di Caino che replica al Signore affermando: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9) costituisce una specie di leitmotiv (cfr. Fratelli tutti, n. 57). La citazione è addotta al fine di indicare, su un piano universale, il rifiuto di prendersi cura degli altri. Si è di fronte a un tossico frutto dell’indifferenza. L’uccisione di Abele da parte del fratello maggiore Caino è leggibile in vari modi: vista sul piano etico è segno perenne che ogni omicidio rappresenta, nella sua radice, un fratricidio; letta in chiave di antropologia culturale indica l’antica, inestinta contesa tra i diversi, e più conflittuali che solidali, modi di spartirsi beni e risorse (Caino è un agricoltore stanziale, Abele un pastore errante); colta in chiave simbolica attesta la fragilità della condizione umana (Abele da hevel, soffio, vacuità). Alcuni passi del Nuovo Testamento dischiudono una prospettiva ulteriore di carattere teologico. Si legge nella Prima lettera di Giovanni (3,12): «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin dal principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino che era dal Maligno e così uccise suo fratello».
Nel capitolo quarto della Genesi la parola «fratello» torna sette volte; essa ricorre sempre per affermare che Caino è fratello di Abele; mentre non si dichiara mai che la vittima è fratello del suo assassino. Si asserisce perciò che è l’uccisore a essere fratello di colui di cui ha estinto la vita. In questo modo da un lato si dichiara che la fratellanza è luogo di responsabilità mentre dall’altro si afferma, implicitamente, che la vittima è tale anche perché chi lo sta uccidendo non lo riconosce come fratello. Nella Bibbia ebraica la fratellanza tende ad assumere un carattere universale solo quando è assunta sotto l’angolatura della responsabilità (e di conseguenza della potenziale colpevolezza). Ciò risulta con particolare rilievo allorché si parla di un’alleanza che riguarda l’umanità intera, o meglio, ancor più estesamente, ogni essere vivente; si tratta di quella stabilita alla fine del diluvio: «Del sangue vostro, ossia della vostra vita, Io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello» (Gen 9,5) (verso esplicitamente citato in Fratelli tutti, n. 270).
Il termine «consanguinei» di solito impiegato (come ben sappiamo in questa stagione pandemica) per indicare una prossimità parentale, nel passo genesiaco indicherebbe piuttosto la dimensione più ampia fra tutte, quella che coinvolge la sfera dei viventi. Lo fa però soltanto a motivo della presenza di una vita fragile esposta alla violenza assassina. Qui non c’è posto per la bellezza e l’armonia del creato: «Chi sparge il sangue dell’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uomo» (Gen 9, 6). Perché c’è bisogno di affermarlo con un linguaggio minaccioso? Gli esseri umani non sono forse «dotati di ragione e di coscienza»? Per la Bibbia ciò non basta, occorre la presenza di una parola giunta dal di fuori che rafforzi quella del sangue versato (alla quale, nell’ «aiuola che ci fa tanto feroci», si è fatta da sempre l’abitudine). Secondo la Genesi, Abele non parla mai; egli è l’archetipo di ogni vittima a cui è lasciata come voce unicamente quella del sangue che grida dal suolo. Rispetto a essa l’assassino rimane sordo. La presa di coscienza da parte di Caino è suscitata soltanto dalla parola del Signore che gli giunge da fuori: «Che hai fatto?» (Gen 4,10-13).