521 – La Pietà Rondanini (10.05.2015)

Il pensiero della settimana, n. 521.

 La Pietà Rondanini

 Pochi giorni fa si è stato aperto al Castello sforzesco di Milano il “Museo della Pietà”. Si tratta di una nuovo allestimento, a opera di Michele De Lucchi, grazie al quale l’estremo capolavoro michelangiolesco viene ospitato in una sala dell’ex Ospedale spagnolo.
Riproduco la parte dedicata alla Pietà Rondanini del mio testo appena uscito, La Bibbia di Michelangelo, Claudiana-EMI, Torino-Bologna 2015 (pp. 95, € 9,50), qui pp. 85-80 [1].

 

     Michelangelo iniziò a lavorare alla sua ultima Pietà verso il 1555. A quel tempo aveva assunto, ormai da circa nove anni, la direzione dei lavori della cupola di San Pietro. Egli infatti aveva ereditato il compito che, nei decenni precedenti, vide tra i suoi protagonisti Bramante, Raffaello e Sangallo. L’artista non elaborò mai un progetto davvero definitivo della grande impresa architettonica. Tuttavia tra il 1557 e il 1558 fu approntato un modello ligneo molto simile alla cupola che sarebbe stata effettivamente costruita nei decenni successivi (per vederla terminata bisognerà giungere al XVII secolo). Gli ultimi anni di vita di Michelangelo sul piano artistico furono perciò caratterizzati, da un lato, da una imponente opera destinata ad assurgere a simbolo della cattolicità e dall’altro dalle linee scarne e filiformi di una Pietà mai portata a compimento. Non ci potrebbe essere contrasto maggiore tra il «cupolone» che domina Roma e le figure di un marmo quasi spiritualizzato ora custodite nel milanese Castello Sforzesco. A una costruzione che vuole rappresentare in terra la potenza del Cielo fa da controaltare un esile corpo privo di vita.

     Il grande scultore inglese Henry Moore, dopo aver definito la Pietà Rondanini l’opera in assoluto più commovente mai eseguita da un’artista, l’ha prospettata come perenne confutazione della convinzione in base alla quale un capolavoro debba essere contraddistinto da uno stile che rifugge da disunità e disparità. Nell’estremo capolavoro di Michelangelo le diversità sono palesi. La verticalità della statua evidenzia, risalendo dal basso all’alto, il passaggio dalle gambe di Gesù, definite e levigate, alla parte alta costituita dai volti di Maria e di suo figlio che appaiono poco più che sbozzati. Il particolare più strano è però rappresentato da un braccio a sé stante, lavorato con cura ma troncato poco sopra il gomito, collegato al resto della statua con un esile raccordo marmoreo. Le caratteristiche indicano la peculiarità di un’opera che incorpora in sé elementi precedenti e nel contempo ne elimina altri[2] . Il tutto dà luogo a un gruppo marmoreo esile e verticale. In essa la penuria della materia non denuncia un’insufficienza; essa, all’opposto, attesta una piena fusione tra carne e spirito.

     Nell’elenco notarile delle opere trovate nello studio di Michelangelo dopo la sua morte, si registra l’esistenza di una «statua principata per un Cristo e un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite». Dentro un linguaggio di tipo burocratico si annida un significato insospettato. In effetti la comprensione dell’opera non può prescindere dalla definizione «attaccate assieme». Non bisogna però dimenticare neppure quel braccio isolato. Quest’ultimo svolge, in effetti, anche la funzione pratica di non sbilanciare il marmo, tuttavia oltre allo scopo statico un peso non inferiore gli va attribuito anche sul piano simbolico.

     La serie di ripetuti interventi compiuti da Michelangelo attorno a questa sua ultima opera fanno raggiungere al «levare» un ruolo ineguagliato. Qui la penuria di materiale, invece di denunciare insufficienze, attesta un avvenuto processo di spiritualizzazione dei corpi che fa presagire la risurrezione. Paolo, a proposito della condizione dei risorti, parla dell’ esistenza di un «corpo spirituale» (1Cor 15, 44). La definizione si pone al di là di ogni possibile trascrizione iconografia; tuttavia la Pietà Rondanini, nella sua in-finita allusività, sembra costituire una suprema eccezione a questa regola. I corpi opulenti propri dell’arte di Michelangelo qui lasciano il posto a figure di una magrezza quasi diafana chiamate a rivelare la presenza dello spirito nella carne. Per questo motivo non si colgono sostanziali differenze tra il corpo morto di Gesù e quello vivo di Maria. I volti, inoltre, sono entrambi giovani. Il fatto poi che tutti e due siano solo sbozzati rende indistinguibile la basilare diversità di espressione arrecata dalla morte. Infine la mancanza di materia nel viso di Gesù, lascia supporre che, in ogni caso, il suo naso sarebbe rimasto irrimediabilmente schiacciato; si tratta, forse, di un’allusione a quello di Michelangelo stesso, perennemente deformato a causa di in pugno ricevuto nel corso di una lite giovanile.

     Nella Pietà la madre, che dovrebbe avere la funzione di sorreggere il figlio, appare come se ne venisse a propria volta da lui sorretta. Anche sotto l’aspetto visivo e non solo in relazione a quello spirituale la statua comunica perciò la capacità di Gesù di sostenere la madre – e con lei tutti i fedeli. Ciò è reso possibile in virtù della sua morte che è passaggio – pasqua – e non già fine di tutto. Nella scultura è racchiuso anche un secondo ossimoro costituito dall’incontro tra lo slancio verticale e la curvatura verso il basso della parte superiore dei due corpi di Maria e di Gesù. La madre è più alta del figlio perché i suoi piedi si poggiamo su uno scalino di roccia, mentre Gesù sembra, specie in virtù della gambe lievemente incurvate, scivolare, a poco a poco, verso il basso, eppure nel contempo è Maria ad apparire come sorretta e portata da Gesù. La madre si appoggia sul figlio che pur è rappresentato con le gambe che stanno cedendo. In realtà, se si osserva la statua di profilo, si coglie che la composizione «a falce di luna» ha due punti di forza: uno è rappresentato dal gravare della donna sulle spalle di Gesù, l’altro è costituito dalla strana spinta verso l’alto esercitata dalle gambe di lui[3] . La sintesi dei due gesti contrastanti si trova nell’abbraccio tra le due figure «attaccate assieme». Entrambe, però, si presentano con braccia appena sbozzate. Quest’ultima caratteristica non fa che porre in ulteriore evidenza la presenza del braccio isolato, perfettamente definito nella parte anteriore ma ancora imprigionato dal marmo in quella posteriore. Il grado di compiutezza della lavorazione dell’avambraccio costringe, a propria volta, a notare la mancanza nella mano della ferita prodotta dal chiodo. Né nella parte finita, né in quella in-finita della Pietà si scorgono stigmate.

     Non abbiamo certezze interpretative al riguardo; tuttavia sappiamo che della statua precedente Michelangelo ha conservato il braccio e ha eliminato il volto. Il viso sbozzato di Gesù presente nella Pietà potrebbe alludere a quello dell’artista; può essere così anche per il braccio? Una suggestiva lettura ipotizza che il braccio conservato privo dei segni della passione simboleggi proprio quello di Michelangelo; esso perciò indicherebbe l’arto attraverso il quale sono state cavate dal marmo quella e tutte le alte sculture eseguite dall’artista nel corso della sua lunga vita[4] . Visto sotto questa angolatura, il mantenimento del braccio diverrebbe simbolo di un’opera che si sapeva essere stata l’ultima; l’ottantanovenne Michelangelo vi lavorò infatti fino a pochi giorni prima della morte. Il braccio però è spezzato. Il finito e il compiuto rimandano anche qui all’in-finito diretto a simboleggiare una eccedenza a cui l’arte allude senza poter catturare. Il braccio oltre a essere spezzato nella parte posteriore è ancora imprigionato nella materia. L’arto che, attraverso il «levare», ha donato suprema bellezza resta, dunque, in parte bloccato dentro il marmo.

     Alcuni complessi versi di Michelangelo affermano: «S’a tuo nome ho concetto alcun imago, non è senza del par seco la morte, / ove l’arte e l’ingegno dilegua. / Ma se, quel c’alcun crede, i’ m’appago / che si ritorni a viver, a tal sorte / ti servirò, s’avvien che l’arte segua»[5] . Il senso dei versi è pressappoco il seguente: quando in tuo nome ho ideato qualche figura ho avvertito in pari tempo anche la presenza della morte che produce la scomparsa dell’arte e dell’ingegno, ma se pur mi appago, secondo la fede di alcuni, che si ritorni a vivere, ti servirò per raggiungere quella meta purché l’arte mi assecondi. L’arte si trova dunque sul crinale posto tra caducità e immortalità. Per farla virare dalla parte di ciò che non tramonta, non basta una vittoria sulla morte conseguita attraverso una fama. Ora è in gioco una vita effettiva che si dispiega al di là del velo della morte. Rispetto a essa l’arte resta nella incertezza di riuscire a seguire una meta così grande. Tuttavia il continuo «levare» che ha contraddistinto la lunga lavorazione dell’ultima opera di Michelangelo è sfociato in un esito tale da spogliare il marmo da ogni componente di greve materialità. Qui è avvenuto che l’arte segua.

Scrisse Michelangelo: «Non ha l’abito intero prima alcun, / c’a l’estremo dell’arte e della vita»[6] . La Pietà Rondanini è questo estremo. Per le creatura umane nessun abito è così intero come quando può dirsi in-finito.

Piero Stefani

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[1] Si tratta del primo volumetto della collana “Quaderni di Bibbia, cultura,  scuola” edito da Claudiana-EMI in collaborazione con  Biblia-BeS.

I primi tre volumetti della nuova iniziativa editoriale, sono Piero Stefani, La Bibbia di Michelangelo, Brunetto Salvarani, La Bibbia di De André, Laura Novati, La Bibbia di Leopardi. I tre testi saranno presentati nel corso del Salone internazionale del libro di Torino domenica 17 maggio ore 16-17, Spazio autori Padiglione 3, da Vito Mancuso, saranno presenti i tre autori.

[2] In epoca In epoca relativamente recente è stata ritrovata una testa in genere identificata con il gruppo scultoreo destinato a diventare la Pietà Rondanini; cfr. B. MANTURA, Il primo Cristo della Pietà Rondanini, in «Bollettino d’arte» LVIII, 4, p.199 ss

[3] P. LIA, La Pietà Rondanini. Una lettura del Mistero pasquale, presentazione di P. Sequeri, Àncora, Milano 1999, p. 44.

 [4] Ivi, p. 62

[5]P. LIA, La Pietà Rondanini. Una lettura del Mistero pasquale, presentazione di P. Sequeri, Àncora, Milano 1999, p. 44.

[6] P. LIA, La Pietà Rondanini. Una lettura del Mistero pasquale, presentazione di P. Sequeri, Àncora, Milano 1999, p. 44.

 

 

 

 

521 – La Pietà Rondanini (10.05.2015)ultima modifica: 2015-05-09T09:00:27+02:00da piero-stefani
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