476 – Noé uomo giusto nella sua generazione (04.05.2014)

Il pensiero della settimana n. 476

 Noè uomo giusto nella sua generazione

      L’orizzonte delle generazioni nella Bibbia, per più aspetti, non è molto diverso da quello corrente. Esso indica un’appartenenza comune, un luogo di trasmissione e un terreno su cui la comunicazione non è sempre facile. Tuttavia nella Scrittura la parola «generazione» indica anche una dimensione più basilare.

     Si legge nella Genesi: «Questo è il libro delle generazioni dell’uomo (’adam) nel giorno in cui Dio creò l’uomo (’adam), lo fece a somiglianza di Dio (bidmut ’Elohim), maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomo (’adam) quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine (zelem) e somiglianza (demut) un figlio e lo chiamò Set » (Gen 5,1-3). In questo brano avviene un passaggio dal nome comune «uomo» (’adam) al nome proprio  «Adamo» (’Adam). In questa transazione  è implicitamente  affermato il costituirsi della persona  umana come essere relazionale nel suo darsi come maschio e femmina (Gen 1,27). Il nome originario  di ’adam dato da Dio all’essere umano fa tutt’uno con il suo essere maschio e femmina; in virtù di questa condizione e della benedizione che la suggella,  l’ ’adam è in grado di trasmettere alla generazione successiva quella stessa immagine e somiglianza. Per così dire, ci si trova di fronte al dispiegarsi di una proprietà transitiva. Il versetto biblico, infatti, non vuol dire che Set ebbe semplicemente  le fattezze  di suo  padre (e dove è andata a finire la madre?); esso significa ben di più e cioè che pure il figlio porta impressa in sé l’immagine e la somiglianza di Dio.

     Questo testo (non a  caso giudicato dall’ antico maestro ebreo Ben Azzay la più grande regola della Torah) è la base di riferimento per un’uguaglianza radicale tra tutto il genere umano. Si tratta di un principio che si trasforma in giudizio inappellabile contro ogni forma di disuguaglianza e sfruttamento presenti nella storia di ieri e di oggi.
     L’ affermazione della uguaglianza interumana è giusta e tuttavia essa è anche priva di riscontri comuni e condivisi all’interno della ormai lunghissima vita del genere umano. Di fronte a questa perenne smentita fattuale le alternative sono, in sostanza, due: la prima consegna la prospettiva dell’uguaglianza alla sfera dei sogni incapaci di trovare riscontro nella realtà, così facendo il principio è privato di ogni capacità di giudizio sul reale; la seconda alternativa, invece, si basa sullo stupore del fatto che l’umanità abbia elaborato  l’idea secondo cui  la condizione che tutti ci uguaglia sia un criterio guida a tal punto basilare da non essere confutato neppure dalle sue diuturne smentite fattuali. Si  comprende perché proprio a questo punto si sia chiamato in causa Dio. Per quest’ottica, anche nel caso in cui fosse coniugata laicamente,  il dover essere appare, comunque,  più fondamentale dell’essere. Tutto ciò non mette al riparo dall’angoscia per la condizione umana; anzi proprio questa prospettiva è quella che più acutamente evidenzia l’insanabile sproporzione esistente tra quanto si sa essere bene e quanto effettivamente si compie. Paolo, che percepì drammaticamente questa divaricazione («io non compio il bene che voglio, ma quel che non voglio»), lo spiegò  affermando che in noi abita la potenza del peccato (Rm  7,14-24).
     L’uguaglianza è messa alla prova anche dalla diversità dei comportamenti assunti dall’umanità nel corso del tempo. In questo senso non tutte le generazioni sono identiche: ce ne sono delle migliori e delle peggiori. La Genesi, a proposito  di Noè, afferma che egli era un uomo giusto e integro nella sua generazione, quella del diluvio (Gen 6,9). Nella sua tipica pluralità interpretativa, il commento rabbinico fornisce due letture opposte (o più probabilmente complementari) di questa annotazione. La prima afferma che si tratta di una limitazione: era giusto per quella generazione allo  stesso modo in cui è beato il monocolo nel regno dei ciechi. Noè era giusto nella sua generazione, ma se fosse vissuto in quella di Abramo non sarebbe stato tale. In effetti, aggiungiamo, Noè  accetta senza discutere la distruzione di tutti i suoi contemporanei, mentre Abramo contende con Dio per la salvezza delle corrotte Sodoma e Gomorra (Gen 18,17-32). L’altra interpretazione sostiene, al contrario, che se uno è stato  in grado di essere giusto in seno ai malvagi lo sarebbe stato ancor di più in una generazione migliore. La conclusione, solo apparentemente semplicistica, è che ognuno è chiamato a essere giusto nella propria generazione anche nel caso in cui quest’ultima non lo sia, tuttavia a sua volta è necessariamente condizionato dall’ethos dei suoi contemporanei.

Piero Stefani

 

476 – Noé uomo giusto nella sua generazione (04.05.2014)ultima modifica: 2014-05-03T09:27:26+02:00da piero-stefani
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