475 – Il succedersi delle generazioni (27.04.2014)

Il pensiero della settimana, n. 475
 Il succedersi delle generazioni

   Tutti apparteniamo a una generazione. Cosa significa? Lo dice bene il Qohelet nella prima delle coppie antitetiche presenti nel capitolo 3: «tempo per generare e tempo per morire» e, è ovvio, un tempo per tutto quanto sta nel mezzo: crescere, apprendere, lavorare, generare a propria volta, invecchiare. Le generazioni sono la distanza temporale vissuta nel presente. Tutti condividiamo lo stesso tempo, ma non tutti siamo portatori o testimoni degli stessi tempi. Nella compresenza si misura una distanza. Essa è patita più all’ingiù che all’insù. Chi viene prima cerca di capire chi viene dopo; infatti, lo tematizzi o meno, sa di avere delle responsabilità nei  confronti dei più giovani. Questo modo di essere è proprio di un genitore, di un educatore, di un insegnante, ma, più in generale, esso vale (o dovrebbe valere) per ogni adulto. Di contro chi viene dopo, di norma, non si sente responsabile di chi lo ha preceduto. Anzi non di rado cerca di svincolarsi dal loro influsso e di prendere il loro posto (di «rottamarli» per usare un verbo indelebilmente legato all’attuale dirigenza del nostro povero paese). Tuttavia, a propria volta, anche loro verranno scalzati da chi giungerà ancora dopo.

   Qui non si tratta di comprendere antenati o posteri: il problema è di respiro più breve; esso si colloca in una compresenza sfasata. «Non li capisco» non riguarda i secoli e forse neppure più solo i decenni, ora attiene addirittura agli anni. Basta ormai poco perché sul terreno delle generazioni compaiano profonde spaccature. Il far fatica a comprendere contraddistingue una distanza collettiva. Eppure è anche vero che tutti si vive nello stesso tempo e che, non foss’altro che per questo, forme di comunicazione continuano a sussistere.
  Se non ci fosse il succedersi delle generazioni mancherebbe la base stessa della storia. Questa realtà, così esaltata specie dalla cultura occidentale, sarebbe priva di
gambe. La storia, indubbiamente, non si riduce al succedersi delle generazioni. Tuttavia essa  è tributaria al nascere e al morire non meno di quanto un albero, la cui storia è solo biologica, dipenda dalla terra, dall’acqua e dal sole. Non è dunque occasionale constatare che l’unico passo del Vangelo in cui si parla in modo esplicito di segni dei tempi faccia ricorso (duramente) proprio al termine collettivo e uniforme di «generazione»:«Sapete dunque interpretare  l’aspetto del cielo e non siete in grado di interpretare il segno dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno!» (Mt 16, 3-4).
   Qual è la mia generazione? Quella determinata dalla mia data di nascita o quella legata a un oggi che accomuna tutti i viventi che si trovano sulla terra? Il Vangelo parla di generazione al singolare e non già della compresenza di più generazioni al plurale. Eppure anche all’epoca di Gesù c’erano vecchi, adulti, giovani, bambini. A essere chiamata in causa è però la collettività nel suo insieme. «Segni dei tempi»: ci sono momenti in cui si percepisce che si è di fronte a una responsabilità collettiva, anche se non tutti hanno sulle  spalle un ugual peso. Una generazione è rappresentata da tutti coloro che oggi sono vivi. Nessuno di loro è chiamato fuori dalla responsabilità. Il primo segno dei tempi è essere consapevoli di appartenere a una generazione al singolare; ciò esige l’assunzione anche di una dimensione storica. La consapevolezza di appartenere a una vita collettiva che si sviluppa nel tempo equivale ad avvertire il senso della storia.  In questo caso è il sentirsi parte di una generazione al plurale («la mia, nostra generazione» distinta da quella dei più giovani o dei più anziani) a essere subordinata a un’appartenenza collettiva chiamata a discernere i segni dei tempi.

Piero Stefani

475 – Il succedersi delle generazioni (27.04.2014)ultima modifica: 2014-04-26T10:19:56+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “475 – Il succedersi delle generazioni (27.04.2014)

  1. Caro Piero,
    solo un cenno a un punto marginale ma significativo del tuo ultimo Pensiero (se poi tu non volevi dire quel che mi pare di aver capito, c’è tempo per chiarirsi). Credo sia inappropriato ricondurre la “rottamazione” (concetto e prassi ovviamente discutibili) renziana a un conflitto generazionale di chi cerca solo – rispetto a chi è venuto prima – di “svincolarsi dal loro influsso e di prendere il loro posto”. La “rottamazione” è nata avendo il suo ambito specifico nel PD, e quanto ha preceduto e seguito le primarie del ’12 ha mostrato ampiamente che c’erano dei motivi pesanti (comunque li si voglia giudicare), tra cui una concezione del partito e della politica alquanto diversa. Bersani parlava di “ditta”, ma era la “sua” ditta, non quella del partito (osservazione che mi è capitato di sentire all’interno del PD milanese).
    Se poi si vuole allargare il campo al rapporto tra generazioni, non tutte le generazioni – tanto per citare il fatto più vistoso – ricevono in eredità dai padri un debito del 130 per cento.
    Forse se una parte almeno delle idee della “attuale dirigenza” fossero state messe in opera dieci o vent’anni fa il nostro paese sarebbe oggi meno “povero”.

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