432_Ninive interprete della Parola (12.05.2013)

Il pensiero della settimana, n. 432 

 

    Il breve libro di Giona si apre con una chiamata rivolta al profeta ad alzarsi per andare a predicare contro Ninive, la grande, corrotta città posta a Oriente. Giona fugge dall’altra parte, verso Tarsis, nell’estremo Occidente. Il testo commenta tutto ciò dicendo che il proposito del profeta era di andare lontano «dal volto del Signore» (Gn 1,2.10). Ma è forse possibile, per un libro “universalistico” in cui si afferma che vi è un solo Dio per tutti, sottrarsi allo sguardo di Dio? Forse che Dio abita un’unica terra ed è assente nelle periferie del mondo? Eppure Giona non sbaglia. In effetti ci si sottrae sempre dalla presenza del Signore quando si rifiuta il compito a cui si è stati chiamati. Non è questione di latitudine o di longitudine; si tratta di non assunzione della vocazione che ci è stata rivolta. Quando si dice «no» a quel che  Dio ci chiede si stende un velo sul volto di  chi ci interpella.

Per quale ragione il profeta si allontana da quanto gli è richiesto?  Per rispondere alla domanda dobbiamo ripercorrere la vicenda del nostro profeta. Giona è chiamato a proclamare prossima una severa punizione riservata a una grande città. Egli si sottrae al compito forse perché teme di formulare minacce o, al contrario, perché paventa che esse non vengano attuate? L’autentico profeta annuncia la sventura nella speranza che essa non giunga. Egli non ha paura di essere apparentemente smentito. Quando la conversione e il mutamento di vita scongiurano la catastrofe, la parola profetica consegue il suo vero scopo. Forse anche per questo Giona è una figura simbolica e non già un profeta in carne e ossa.

Il profeta, una volta ricondotto dalla sua iniziale fuga a predicare a Ninive, diede corso a una predicazione tutta posta all’insegna di un «fato enunciativo». Egli non dice: «se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo» (cfr. Lc 13,1-5); al contrario, afferma seccamente: «ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta» (Gn 3,3). La sua è una pura previsione che se fosse smentita lo consegnerebbe, secondo la sua opinione, al ruolo di falso profeta. La grande intuizione dei niniviti consistette nel non lasciarsi sgomentare dall’annuncio infausto. Ad esso si rispose con penitenza e digiuni. Il pentimento degli abitanti di Ninive trova corrispondenza in una misericordia divina che sembra falsificare quanto, in apparenza, predetto dal profeta. L’annuncio rivolto alle periferie del mondo non comporta solo che la parola del nostro Dio giunga anche a esse; significa di più, vale a dire che i «lontani» divengono in proprio protagonisti. Sono i niniviti a diventare soggetti attivi in grado, contro la lettera della parola, di convertire Dio stesso facendo sì che si penta del male minacciato (Gn 3,10). Il più grande messaggio del libro di Giona sta forse proprio in ciò: gli «altri» sono divenuti soggetti attivi. In virtù dell’annuncio, i niniviti sono andati oltre l’annuncio.

Si tratta di una parabola in grado di indicare, forse più di ogni altra, la logica dell’«evangelizzazione nuova» (come vuole Giovanni Ferretti,[1] è preferibile far seguire l’aggettivo al sostantivo). Il messaggio è offerto, ma la sua interpretazione non va rigidamente prefissata. «Altri» possano ricavarne significati più veri. Fino a poche settimane fa, nella Chiesa cattolica, questa stagione sembrava consegnata ormai solo alla storia (si pensi alla vicenda della «lettura popolare» della Bibbia in America Latina). Da un paio di mesi si intravede qualche spiraglio che a essa possa  dischiudersi anche un futuro; a patto, però, che i Giona di ieri e di oggi accettino di essere confutati da chi legge diversamente e più a fondo il cuore di Dio. Ciò esige un impegno a essere scrutatori liberi e attenti della parola e questo si presenterebbe, forse, anche come una risposta coerente al protagonismo carismatico.

Visto dalla parte di Dio, quanto avvenuto a Ninive  è riassunto da un lapidario detto di Tommaso d’Aquino: «Egli muta decisione, ma non muta consiglio» (Sum Theol. q. 171, a. 6, 2um). La «dialettica della misericordia» esige appunto questa asimmetria in cui la lettera della profezia deve essere falsificata affinché se ne realizzi il senso più profondo. Giona cercò di sottrarsi alla chiamata proprio perché sapeva tutto ciò. Egli non voleva che gli «altri» diventassero protagonisti in grado di annullare la lettera della sua parola profetica. Sapeva che Dio l’avrebbe condotto a vedere capovolte le certezze a cui era attaccato. Giona è chiamato a predicare il giudizio e sa che nel Signore prevale la misericordia. Il profeta non sopporta questa contraddizione, a dirlo è lui stesso: «Signore non era questo quello che ti dicevo quando ero nella mia terra? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e  che si pente del male» (Gn 4,1-2). Specialmente nel nostro tempo, non si tratta, però, solo di riconoscere il prevalere della divina misericordia; occorre anche prendere atto che questo mutamento – ma il libro biblico non esita a parlare, anche per Dio, di conversione (Gn 3,10) – è dovuto alle opere di penitenza compiute dai niniviti e che ciò li rende protagonisti di un nuovo modo di intendere Dio: le periferie diventano interpreti «autorizzati» della parola.

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Piero Stefani

 

 




[1] Cfr. Jesus, maggio 2013, p.94.

432_Ninive interprete della Parola (12.05.2013)ultima modifica: 2013-05-11T06:00:00+02:00da piero-stefani
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