390. La coscienza da un concilio all’altro

Il pensiero della settimana n. 390

 

Il Concilio Lateranense IV non gode, a ragione, di grande popolarità. Esso denunciò come eretiche alcune frasi di un libello attribuito a Gioacchino da Fiore  (personaggio di cui era in corso il processo di beatificazione); condannò Catari e Valdesi; fece sì che la repressione dell’eresia, affidata ai vescovi e ai tribunali dell’inquisizione da loro dipendenti, venisse elevata a legge generale della Chiesa; impose agli ebrei un segno di riconoscimento. Insomma fu un concilio dominato da uno spirito di autorità  propenso ad esaltare il ruolo di papa Innocenzo III. Eppure, sepolta nelle viscere dei suoi decreti, si trova un’affermazione sorprendente: «Quindquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam». La sentenza colpì Pietro Scoppola (è riportata nel suo scritto postumo, Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008) quando la vide citata in una conferenza di Gallarati Scotti del 1907 tenuta alla Lega democratica di Romolo Murri. Una vicenda che si sarebbe conclusa, di lì a poco, in modo traumatico a causa della repressione pontificia.

Agire contro coscienza significa costruire per la geenna. Ma come conciliare questa santa affermazione con la condanna riservata agli eretici? Allora non ci si limitava agli errori, si colpivano le persone. Una ipotesi per giustificare l’apparente paradosso è che tutti i presunti eretici agissero in male fede, andando contro la voce della coscienza. Non si tratta di un’opzione plausibile. Anche nel Medioevo si era consapevoli  che, soggettivamente, vi erano eretici in buona fede. Il problema perciò si sposta al sapere che cosa si intende per coscienza. È una questione tutt’altro che risolta.

Il testo capitale per un cattolicesimo che ha recepito in qualche misura istanze espresse dalla cultura moderna lo si ritrova in un lungo paragrafo, il 16, della Gaudium et spes. Nella prima parte esso afferma che la coscienza è una voce interiore che  si attiene  alla legge morale scritta da Dio nei cuori. La dignità umana sta nel prestar obbedienza ad essa. Poi si aggiunge: «La coscienza è il nucleo più profondo e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la sua voce risuona nel suo intimo». La nota rimanda a un radiomessaggio di Pio XII (1952) dedicato alla retta formazione della coscienza cristiana nei giovani. L’agire secondo coscienza dipende, dunque, dall’ascolto attento di una voce sempre omogenea a se stessa perché conforme all’immutabile legge di Dio.

Il paragrafo prosegue affermando: «Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza, i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale». Il passaggio è di capitale importanza nel momento in cui indica uno stile di comportamento posto all’insegna della collaborazione. L’insistenza sull’intimità della coscienza si regge sull’ascolto. Qui si apre la questione dell’etimo della parola «coscienza». Esso vale solo nella direzione della profondità interiore o si rivolge, in senso orizzontale, anche verso il dialogo interumano. Tommaso d’Aquino osservava che coscientia vuol dire «cum alio scire», «sapere con altro».

Chi è questo altro? È la voce di una legge immutabile scritta nei cuori o è il confronto con l’altro essere umano? Recita la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948): «Tutti gli uomini nascono liberi e eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione  e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fraternità». Alle spalle di questa formulazione vi è una storia. Nelle discussioni preparatorie, il cinese P. Chang tentò di far entrare accanto all’idea di razionalità anche quella di «sentimento che esistono gli altri uomini», ciò venne tradotto in «sono dotati per natura di ragione e coscienza» (formulazione che non piacque a Chang). In altre parole, la legge dell’amore del prossimo o la «regola d’oro» di non fare agli altri quello che non vorresti che altri facessero a te, la si trova nell’intimo della coscienza in cui risuona la voce della legge di Dio o la si coglie solo in una relazione effettiva con gli altri esseri umani? Gli stili di comportamento mutano radicalmente se si opta per l’una o per l’altra di queste alternative. La parabola del «buon Samaritano» prende le mosse dal dover spiegare, in relazione al comandamento (Lv 19,18), chi sia il nostro prossimo e si conclude dicendo non solo che bisogna «farsi prossimo», ma anche indicando che il samaritano fu mosso ad agire dal sussulto di pietà delle proprie viscere sorto di fronte alla sventura altrui. Qui non si parla più dall’applicazione di un precetto scritto nel Libro e/o nel cuore (Lc 10,29-37). Le viscere sono un’interiorità estroversa.

Il paragrafo della Gaudium et spes si chiude su un registro oggettivistico: «Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza per questo che essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato». La concessione all’oggettivismo (gli storici del Vaticano II parlerebbero di cedimento all’ala conservatrice) tira con sé conseguenze molto rilevanti. La pesante espressione di «ignoranza invincibile» sarebbe parzialmente tollerabile fino a quando non compromette la dignità della persona, ma le ultime righe del paragrafo sembrano andare ancora oltre e consegnare la persona umana alla possibilità di una totale cecità. È qui riscritta in termini morali la categoria biblica dell’«empio»? D’altro canto il tema di un possibile abbrutimento della persona umana non è una finzione. Ma chi può arrogarsi il diritto di affermare che non c’è più nulla da fare?

Inoltrandosi sul fronte oggettivistico si rischia di compromettere in modo serio la distinzione tra «errore» ed «errante» e di far rientrare, sia pure in modo meno brutalmente repressivo, echi di antichi concili che affermavano l’obbligatorietà di conformarsi alla coscienza mentre, nel contempo, consegnavano all’inquisizione coloro che loro stessi classificavano come eretici.

 Piero Stefani

Appendice

Leggo sul blog una critica mossa alla mia osservazione sulla miopia della classe dirigente italiana nel festeggiare il 2 giugno. Mi sento di precisare che il rilievo, a differenza di quanto affermato da Filiberto nel suo intervento, non era rivolta alla Festa della Repubblica in quanto tale, ma alla scelta di celebrarla con una parata militare in via dei Fori imperiali: luogo e modalità appaiono infatti consoni ad altri valori.

 

 

 

 

390. La coscienza da un concilio all’altroultima modifica: 2012-06-09T09:49:01+02:00da piero-stefani
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Un pensiero su “390. La coscienza da un concilio all’altro

  1. La ringrazio per la precisazione. Nel suo intervento ho colto la critica ai festeggiamenti “ostinati” quasi a sottolineare che i fondi spesi per quella festa fossero uno spreco analogamente agli aerei da lei citati. Tra l’altro è stata una critica del tutto legittima mossa da più fronti politici, culturali e sociali. Ora apprendo che la critica era soltanto sulle modalità e sulla scelta dei luoghi ove celebrare la Repubblica. Le chiedo quale sarebbe a suo avviso il modo più consono e i luoghi più indicati per celebrarla. Potremmo proporre questi miglioramenti al prossimo Presidente della Repubblica italiana. Cordiali saluti,

    Filiberto

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