346. L’oliva e le ciliegie (26.06.2011)

Il pensiero della settimana, n, 356

 

Margherita amava la sua terra, ma sapeva bene che la Sicilia era stata benedetta più da Dio (o dagli dèi) che dagli uomini. Per capirlo basta avere occhi e guardarsi un po’ in giro. In ogni angolo si vede qualche opera pubblica lasciata a mezzo e consegnata al degrado. Le speculazioni edilizie private erano invece state portate a compimento. Lo comprova la cementificazione di coste e crinali.  La sensazione si rafforza se si hanno orecchi. Da un lato con essi si percepisce la risacca del mare e lo stormire delle fronde; dall’altro, si colgono le mute grida del sangue versato e il sussurro maligno racchiuso dietro le persiane.

Anche se la Sicilia  è identificata, sia nella realtà sia nell’immaginario, più con gli agrumi che con gli ulivi, questi ultimi non mancano. Nell’isola esistono da sempre, pure se, a differenza dei carrubi o dei fichi d’India, non hanno ancora trovato un loro Guttuso. Ce ne sono  di antichi. L’animo di Margherita la portava più volte a mettere in conto i lati oscuri di quanto la vita può riservare, forse per questo era attratta da quelle piante, simboli ben riconoscibili di una contorta, sofferente vecchiaia. Di persona lei era lungi dall’essere arrivata a quella età; la vedeva comunque ben presente attorno a sé. Era ancora una ragazza malinconica quando, in un suo quaderno, aveva scritto una specie di poesia dedicata agli ulivi. Il testo era perduto da gran tempo e, come succede di norma, Margherita, crescendo, aveva considerato ingenui quei versi. Ricordava solo gli ultimi due:  «ora  comprendo perché alla loro ombra  / per noi sudasti sangue».  A quel tempo la figura di Gesù albergava nel suo cuore.

Un giorno di autunno si trovò a camminare in mezzo agli ulivi. Lei, in genere  riflessiva, fu preda di un piccolo, irrefrenabile impulso che la spinse a cogliere e mettere in bocca un’oliva acerba. Fu invasa dall’amarezza. Bisogna pensare non all’amaro del caffè, ma a una forza attorcigliante che invade tutto, inizia dal palato ma poi è come se penetrasse in ogni fibra del corpo. Basta mettere in bocca una piccola oliva acerba per avere una sensazione globale e traumatica. È un amaro che amareggia e perdura. Solo allora, mentre cercava affannosamente un po’ d’acqua per sciacquarsi la bocca, capì. Era emerso un pensiero latente. Da un libro di un autore a lei molto caro aveva appreso una leggenda rabbinica. Il racconto forniva una specie di mappa degli abitanti dei sette cieli. I beati erano disposti in ordine gerarchico. Margherita era rimasta impressionata dal fatto che, al di sopra dello stesso messia, si trovassero coloro  che avevano avuto la vita amara come un’oliva acerba. Il pensiero che la sventura fosse in se stessa agli occhi di Dio un motivo sufficiente per essere salvi la commosse.

Da allora, negli strati profondi della sua psiche, quel passo aveva continuato a operare, fino a indurla ad allungare la mano e aprire la bocca.  Il ricordo non fu tale da trasformare l’amarezza  in dolcezza; fu però in grado di  farla riandare al verso di un salmo. Lo  conosceva nella sua bella formulazione latina: «in pace  amaritudo mea amarissima». Quelle parole le sembrarono la cifra dell’unica forma di pace che può toccare in sorte ai pensosi. Non si proiettò verso una supposta compensazione celeste; si lasciò piuttosto invadere da una sensazione di pace che nulla aveva da spartire con l’esuberanza. Quel momento, contraddistinto dall’ormai precoce allungarsi delle ombre della sera,  le parve capace di svelarle un senso irrinunciabile del vivere.

Passarono vari anni. Anche la stagione era diversa.  Si era sulla soglia dell’ estate, il tempo in cui le fioriture della primavera si ritirano davanti al gagliardo avanzare dell’incipiente arsura. Stava sulla terrazza e di fronte  a sé si estendeva un mare blu cobalto, lievemente increspato dal vento e sottoposto alle robuste  carezze del sole. Sulla tavola campeggiava, trionfante, un  piatto di ciliegie mature. Plinio il vecchio parlò del gelso come di pianta sapientissima, in quanto è l’ultima a far spuntare le infiorescenze e la prima a far maturare le sue more.  In tal modo, essa si pone al riparo tanto dagli improvvisi ritorni del freddo quanto dall’irrompere dell’arsura o da repentine grandinate estive. Margherita, come molte persone colte della sua terra,  amava i classici; conosceva, perciò, quella valutazione che, per suo conto, estendeva alle ciliegie. Anche in questo caso l’albero non è tra i primi a fiorire, mentre i suoi frutti maturano in anticipo rispetto alle albicocche, alle pesche, alle susine,  per non parlare delle mele e delle pere. Già nelle settimane di passaggio tra la primavera e l’estate, le ciliegie anticipano dolcezze che altri frutti raggiungeranno solo dopo essere stati esposti a lungo al dardeggiare del sole. A Margherita era possibile avere un rapporto speciale con quei piccoli frutti rosso scuro, perché dietro casa si ergeva un ciliegio forte e rigoglioso. Per lei quei frutti non erano quelli insapori e costosi acquistati in negozio; al contrario essi erano ancora dotati di un gusto tale da confermare il vecchio proverbio stando al quale una ciliegia tira l’altra.

Margherita respirò l’aria salsa, sentì la risacca, guardò lontano verso il blu scintillante del mare e cominciò a essere pervasa dalla dolcezza suscitata in lei dai  piccoli globi rossi. I noccioli sul tavolo formavano ormai un piccola corona e le sue dita tendevano ad assumere qualche sfumatura violacea. Le venne in mente un altro detto rabbinico: nel tempo avvenire a ogni uomo sarà chiesto conto dei piaceri leciti che si è rifiutato di godere nella vita. Non si trattava soltanto della gola. Tutti i sensi erano chiamati a raccolta: la vista, l’udito, l’odorato, il gusto; il solo tatto aveva poca voce in capitolo. Margherita vedeva, udiva, annusava e gustava una pace serena.

Nell’Apocalisse si parla di un libro ingoiato dal veggente, dolce come miele alla bocca, ma  poi  tale da riempire di amarezza le viscere. Avvenne così anche per le ciliegie. La dolcezza si trasformò in inquietudine amara. Perché avvenisse il mutamento, bastò un solo pensiero. Guardò la divina, indifferente bellezza di quel mare e l’immaginazione le fece vedere la superficie dal di sotto. Le migliaia di annegati racchiusi in quella tomba acquatica riebbero gli occhi, ma per loro tutto era buio e salso. Sono bimbi, donne e uomini che non avranno mai più in sorte di gustare una ciliegia. Nella vita di chi pensa il dolce si muta spesso in amaro. Avvenne anche quel giorno.

La Sicilia oggi  – disse  tra sé – è anche meta non raggiunta per chi è sprofondato nelle acque, luogo di umiliazione per molti di coloro che vi giungono e terra illuminata dai barlumi di umanità espressi da chi si rifiuta, tuttora, di tirar giù la saracinesca  posta davanti alla porta dell’accoglienza.

Piero Stefani

 

 

346. L’oliva e le ciliegie (26.06.2011)ultima modifica: 2011-06-25T08:38:00+02:00da piero-stefani
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