295 – La laicità dei credenti [1] (23.05.2010)

Il pensiero della settimana, n. 295

 

 Prima parte

 

In Italia le più consuete definizioni di «laico» avvengono per negazione. Il procedimento vale tanto per il versante civile quanto per quello ecclesiale.  Nel primo caso per «laico» si intende una persona che non basa le proprie convinzioni e i propri comportamenti su valori o pratiche  religiosi; dal canto suo, in seno alla Chiesa,  il laico è un fedele che non ha ricevuto l’ordine sacro o che non vive in uno stato di vita consacrata. Se letto in quest’ottica, il titolo suonerebbe, almeno per un verso, come  un vero e proprio paradosso: come può credere chi  si definisce non-credente? D’altra parte (visto che qui non si parla della fede dei laici, ma della laicità del credente), la frase suona singolare anche sul versante ecclesiale, quasi che essa volesse insinuare qualche diminuzione della fede dei consacrati.

La prospettiva muta se ci si basa su un’affermazione positiva di «laico», vale a dire se si indaga su quanto egli innanzitutto è e non su quel che egli non è. In questo ambito ci viene in soccorso l’etimologia (uno dei pochi punti universalmente condivisi quando si parla di questo tema). Il termine deriva dal greco  laòs «popolo». Ciò dovrebbe indirizzarci verso la ricerca di quanto è comune: il popolo è una dimensione di cui tutti facciamo parte. Si è in grado perciò di prospettare questa prima pista di riflessione: la laicità attiene a quanto è comune, a quel che ci accomuna, o, con maggiore precisione, essa verte su quanto costituisce  la base su cui poggia tutto il resto. Un esempio – per un versante largamente anacronistico – ci può essere di aiuto: parlare di democrazia e di sovranità popolare significa additare un principio laico, mentre non lo è rivolgersi a un sovrano che è tale per diritto divino. Quest’ultima asserzione dipende non solo dal fatto che qui si fa appello a un potere fondato da Dio, ma anche dalla presa d’atto che, in uno Stato come quello qui descritto, il popolo è formato dall’insieme dei sudditi: è perciò il sovrano a costituire il popolo. La piramide non poggia sulla base, al contrario essa è sospesa in cielo per il vertice e tutto quanto sta al di sotto (di)pende dalla sua punta. In questo senso anche le forme secolarizzate di sudditanza come quelle terribili basate dal Führerprinzip sono antilaiche. Dove svetta la figura del capo, la laicità è sempre in pericolo (cfr. la  vecchia espressione «il culto della personalità»).

Nella sfera della vita pubblica la più persuasiva  formulazione proposta dalla civiltà occidentale rispetto a quanto è comune  rimanda alle dichiarazioni dei diritti umani. La necessità che essi vadano enunciati attesta, di per sé, grossi problemi di fondazione. Vano è, in ogni caso, trovare per i diritti umani una base più salda di quella implicata dal fatto che essi sono stati formulati e accettati. Le loro formulazioni possono, quindi, essere ridefinite e trovare periodicamente enunciati più vincolanti di quanto non lo fossero in generazioni precedenti. Per esempio, nel mondo d’oggi ci pare più radicale riferirci alla dignità umana piuttosto che rendere prioritarie uguaglianza e libertà – valori certo irrinunciabili. La dignità infatti mantiene, anzi in un certo senso potenzia, il proprio valore anche quando il soggetto coinvolto non è in grado di esercitare il proprio diritto. Perciò questa sfera coinvolge pure gli estremi della vita, un tempo antropologicamente e socialmente tenuti meno presenti  di oggi. La fragilità del neonato e del morente  sono dati  che riguardano la società e non solo l’individuo. Discorso analogo concerne altre forme di debolezza. In ogni caso rispetto alla dignità umana è immediato comprendere che il diritto e il dovere si saldano reciprocamente.

Se grandi sono i problemi di fondazione dei diritti umani, ancor più pungenti sono le questioni relative alla loro applicazione. L’orizzonte però non muta ed è dentro di esso che si situa la convenzione in base alla quale si accetta il principio secondo il quale la decisione pubblica è presa a maggioranza. Non si tratta di un fondamento o assoluto, le procedure non sono mai tali. Per comprenderlo basta pensare al fatto che la regola della maggioranza funziona  per davvero solo là dove è riconosciuto il ruolo attivo e propositivo della minoranza.

Il gioco della maggioranza e della minoranza riguarda l’interpretazione dei diritti fondamentali. Quando si discute sul terreno comune occorre far appello a quanto è comune e tuttavia proprio qui insorge il problema delle interpretazioni, con la conseguenza inevitabile di intendere in modo diversificato quanto è condiviso. Non si tratta affatto di una patologia; al contrario, non sano è proprio ogni procedimento plebiscitario. Non è un paradosso che a volte si sia chiamati a dissentire proprio sulla base di quanto è comune. Non vi è perciò alcuna incoerenza sul fatto che, basandosi sul fondamento della «dignità umana», si possa giungere, su alcune questioni di fondo, a conclusioni diametralmente opposte. In proposito basti citare l’esempio dell’eutanasia: il principio della «dignità umana» può essere assunto sia per giustificarla, sia per negarla. Il credente, a tal proposito, deve argomentare come tutti gli altri, senza demonizzare la pluralità di conclusioni (a patto che queste ultime non dipendano da disonestà morale o intellettuale). Affermare che la vita va rispettata fino alla sua fine naturale [sic!] perché questa è la volontà di Dio non è un modo laico di affrontare il discorso pubblico. Ciò avviene non solo perché ci si appella a Dio, ma anche perché si declina in modo assoluto l’interpretazione di un principio condiviso. Oggi si è usi ricorrere all’espressione «valori non negoziabili». Si tratta di una qualifica  impropria; non a caso essa, suo malgrado, suggerisce che tutto è soggetto a compromesso, tranne, appunto, alcune questioni. In realtà, in uno Stato democratico gli unici principi «non negoziabili» sono, per definizione, quelli costituzionali (non per nulla posti al di là del gioco della maggioranza e della minoranza), mentre la loro applicazione rientra sempre nella sfera dialettica delle interpretazioni.

Il credente all’interno della polis quando argomenta la sua posizione è chiamato a basarsi su quanto è comune. Per lui la dignità umana è senza dubbio fondata anche sulla convinzione  che ogni persona  è  creata a immagine e somiglianza di Dio; tuttavia in sede pubblica e pluralista questo argomento non va addotto in maniera diretta. Se lo si facesse ciò significherebbe far prevalere la propria appartenenza cattolica dalla quale deriverebbero, in modo immediato, determinate scelte civili. Si cadrebbe quindi nell’integralismo. Il credente è invece chiamato a far sì che la sua irrinunciabile convinzione nell’esistenza di un fondamento divino della dignità della creatura umana (e solo nell’ambito della fede l’essere umano è definibile, in senso pieno,  come creatura) alimenti argomentazioni «laiche» a favore di questa o di quella opzione concreta.

La laicità dei credenti implica perciò che il pluralismo cattolico, in politica, costituisca un valore irrinunciabile. Esso infatti è l’espressione pratica della convinzione in base alla quale la condivisione di determinate convinzioni di fede  non si riflette in una scelta univoca in sede pubblica. In altri termini, il pluralismo cattolico in politica è un  riconoscimento adeguato delle difficoltà oggettive connesse al gioco interpretativo. Dall’appartenenza alla Chiesa non deriva in modo diretto una determinata scelta politica neppure sui cosiddetti valori non negoziabili. Nella sfera pubblica di un paese democratico gli unici fondamenti non negoziabili sono infatti quelli costituzionali che rappresentano il solo argine efficace da contrapporre a derive populiste legate alla «dittatura della maggioranza».

Piero Stefani




[1] Ripropongo in due puntate  la conversazione tenuta presso il Meic di Lecco il 19 maggio 2010

 

295 – La laicità dei credenti [1] (23.05.2010)ultima modifica: 2010-05-22T12:53:00+02:00da piero-stefani
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