287 – La privazione e l’eccesso (28.03.2010)

Il pensiero della settimana, n. 287

  

Tutti da bambini abbiamo giocato a palla. Pensiamo a una situazione in cui lo si fa  con una pallina tipo quella da tennis. Il primo la getta al secondo, quest’ultimo al terzo, e così via fino a quando non si completa il giro. La circolazione fluisce perché tutti stanno al gioco. Supponiamo però che un ragazzo si metta in tasca la pallina: tutto si interrompe e uno solo diventa  il padrone di un oggetto che prima passava di mano in mano. L’esempio qui riportato ha un padre illustre, il filosofo Ludwig Wittgenstein. Tuttavia il sugo del discorso è accessibile solo se si comprende lo scopo per cui fu introdotta l’esemplificazione. Il colpo di genio sta proprio qui. L’immagine è stata chiamata in causa per sostenere il profondo stravolgimento avvenuto nella Germania nazista in virtù del fatto che in essa era stato bandito l’umorismo. Per converso, si deduce che quest’ultimo può svolgere la sua funzione soltanto quando la comunicazione diviene attiva.

«L’umorismo non è una disposizione d’animo, bensì una visione del mondo.  Perciò, se è giusto dire che nella Germania nazista l’umorismo era stato estirpato, ciò non significa che la gente non fosse di buon umore, ma qualcosa di molto più profondo e importante». Proprio qui si  propone il paragone della palla da cui siamo partiti. Un popolo a cui è stata tolta la capacità di ridere di se stesso diviene  pericoloso perché è costretto a prendersi terribilmente sul serio. Fino a quando la palla circola, ci si riconosce reciprocamente come parti costitutive del gioco e quindi non si assolutizza mai neppure se stessi. Ogni tanto è dato di fare i birichini e tirare, volutamente, la palla un po’ sbilenca, si può persino cercare di far fare brutta figura al vicino e di prenderlo un po’in giro; tutte queste sono però effervescenze del gioco, non violazioni delle sue regola di fondo.

Se tutti tirassero sempre storto il gioco si arresterebbe. L’umorismo muore  là dove non si può ridere di nulla, ma si estingue anche quando si ride in modo indiscriminato di tutto. Se la Germania hitleriana andò incontro alla catastrofe per la prima ragione, l’Italia di oggi sembra incamminarsi a un inesorabile declino per il secondo motivo. Va detto però che fra i due estremi la differenza rimane sensibile: in un caso prevale la distruzione che alla fine si ritorce contro chi, attraverso di essa, voleva dominare, nell’altro caso prevale l’autodistruzione per via di esaurimento.

L’umorismo dei giornali non fa eccezione. Lì il rischio dell’eccesso è ben reale. La coazione a sfornare una vignetta al giorno sfianca gli intelletti più sagaci. Né vi è notizia di apertura per quanto tragica capace di imporre il silenzio a questa obbligatoria rubrica. La parabola pluridecennale di colui che fu considerato il principe dei vignettisti è, in proposito, quanto mai rivelatrice. Messosi via via al servizio di testate le più ideologicamente contrapposte, Giorgio Forattini ha esaurito ogni possibilità di  comunicare alcunché. Nel primo tra i vignettisti sembra leggersi il destino di tutti gli altri, persino di coloro che restano, con più decoro, fedeli a un orientamento politico riconoscibile. Un coltello continuamente all’opera perde il filo e, a forza di usarlo, un punteruolo diviene smussato. Per poter poi ritornare a giocare, ci sono momenti in cui bisogna dire «fermiamoci».

In Italia i giornali sono parte organica del mondo politico. Perciò il riso da loro indotto non scalfisce; esso non è più qualcosa che colpisce dall’esterno; il loro umorismo è diventato un linguaggio che, lungi dal mutare la realtà, in effetti la riconferma. Le vignette sui giornali non si differenziano ormai molto dalla sorte riservata  alle barzellette sui carabinieri da sempre prive di ricadute  concrete sulla vita dell’arma benemerita.

In Italia la manifestazione più palese della pratica impossibilità di castigare i costumi attraverso il riso è la dentatura   impavidamente sopravvissuta al  recente oltraggio – dell’attuale presidente del consiglio. Essa è ostentata fino al punto da essere divenuta organica al suo modo di gestione del potere. Non è equazione sbagliata quella che si sta affacciando, con minor titubanza, in questi ultime settimane: quando il riso scarseggia sulla bocca del cavaliere, il suo potere declina. La serietà  è a disagio quando è chiamata ad abitare quel volto. Di contro, cosa avviene quando la sua dentatura è smagliante? È come se la sua bocca avesse ingerito la nostra palla: il suo riso diviene  modello omologante.

Un proverbio antico ammoniva «quando il leone scopre i suoi denti, tu non pensare che stia ridendo»; con ogni evidenza, egli si sta solo preparando ad altri scopi. Un commentatore medievale, dopo aver riportato la sentenza, aggiunge che i re sono tra gli uomini quello che i leoni sono tra gli animali. In altri tempi si sarebbe potuto concludere  che bisogna diffidare dei sovrani che ridono molto. Oggi probabilmente non è più così: si affaccia una immagine più lugubre, quella della iena ridens.

Piero Stefani

 

 

287 – La privazione e l’eccesso (28.03.2010)ultima modifica: 2010-03-27T15:48:00+01:00da piero-stefani
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