189 – Pregate sempre per la giustizia (27.01.08)

Il pensiero della settimana, n. 189

 

«Non vendicatevi contro chi vi fa del male, ma cercate sempre di fare il bene tra voi e con tutti»

(1 Ts 5, 15)

(Testo della predicazione tenuta nella chiesa Battista di Ferrara il 1° 1 2008)

 

Siamo qui per pregare insieme e non semplicemente insieme per pregare. La condivisione della preghiera in nome di Gesù Cristo è già una forma di unità. In un certo senso esprime e realizza una comunione effettiva. Allo stesso tempo, e per la semplice ragione di esserci, evidenzia quanto ancora ci divide: l’oggetto della preghiera è la richiesta di un’unità che ancora non ci è data. Si è uniti proprio nel momento in cui si chiede concordemente il superamento delle divisioni. Nessuno dei due estremi cade.

Pregare per l’unità significa, prima di ogni altra cosa, evidenziare che essa è dono di Dio. È frase nota, è prospettiva ripetuta, l’affermazione però è colta in tutto il suo spessore solo se la si assume anche nel suo versante critico. Esso ci dice che ogni nostro tentativo di riconciliazione fatto di intese, incontri, abbracci, settimane di preghiera, per quanto buono e auspicabile, resta al di sotto dalla richiesta radicale di essere «uno in Cristo». Prospettiva ultima che non può essere mai conseguita in pienezza nella storia delle Chiese. Essa si pone al di là di ogni specifica realizzazione mondana, né può acquietarsi in un determinato status già conseguito: se l’ansia di unità vuole essere fedele a se stessa, le è precluso di trasformarsi in identità confessionale.

«Guadatevi dal rendere male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. Rallegratevi sempre, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie» (1Ts 5,15). La raccomandazione espressa da Paolo nella prima fra tutte le sue lettere, è complementare all’ordine di Gesù, contenuto nel «Sermone sul monte», stando al quale occorre  riconciliarsi con il fratello che ha qualche cosa contro di noi prima di recarsi a presentare la propria offerta all’altare (Mt 5,23). Quanto turba l’atto di rivolgersi a Dio non è la semplice ostilità provata nei confronti del fratello. L’offerta diviene vana anche quando non si avverte la responsabilità per l’avversione che l’altro ha nei nostri confronti.  Ci si può rallegrare e si può pregare senza interruzione soltanto se prima ci si è completamente riconciliati; ciò avviene  non solo quando ci si astiene dal rendere male per male, ma quando, positivamente, si ricerca il bene gli uni degli altri. Perciò la nostra gioia e le nostre  preghiere ecumeniche ora sono obbligate ad essere  discontinue e parziali. Forse abbiamo smesso di scagliarci il male gli uni contro gli altri, ma non è ancora giunto il tempo in cui ognuno cerca senza posa il bene dell’altro.

Nel libro del Levitico la premessa al grande precetto che ordina di amare il prossimo come se stesso afferma: «non ti vendicare e non provare rancore verso i figli del tuo popolo» (Lv 19,18).  All’interno della comunità del popolo che professa la fede in Gesù Cristo non dovrebbe esserci spazio neppure per il risentimento. Non ti vendicare significa non rendere male per male, mentre (come ben mostra l’ermeneutica giudaica) non provar rancore può persino significare ricambiare il male con un apparente bene; ciò avviene ogni qualvolta quest’ultimo è compiuto per affermare la propria elevatezza spirituale; vale a dire per sostenere che: «io non sono come te, io ti tratto con amore». Il risentimento esclude, per definizione, la capacità di avvertire la benché minima responsabilità nei confronti dell’avversione altrui. Allora ci si sente sempre e solo vittime, mai corresponsabili.

Il cammino ecumenico è bloccato esattamente perché  non si è assunto sulle proprie spalle il giogo (a un tempo pesante e leggero) della responsabilità  nei confronti  delle ostilità (passate e presenti) che il fratello può aver mostrato nei nostri confronti. Forse è tramontato il tempo della vendetta. I cristiani, almeno fino a quando resistono alla tentazione di trasformare la loro fede in ideologia, hanno cessato di rendersi male per male, o almeno non lo fanno nelle forme violente e aberranti di un tempo. Tuttavia non è ancora declinata l’epoca del rancore. Essa si manifesta nell’affermare reciprocamente la propria superiorità e nella radicata convinzione che la responsabilità di scissioni e fratture è soprattutto dell’altro.

La lettura evangelica di questa sera ci ha riproposto il passo del Discorso della montagna (5,38-42).  In esso ci è chiesto di non opporci al malvagio, di porgere l’altra guancia a chi ci percuote su quella destra (vale a dire a chi ci ha dato un manrovescio, atto particolarmente insultante) e di lasciarsi prendere la tunica oltre che il mantello. Pregare per la giustizia. Che senso di giustizia è mai questo che sembra non porre limiti al dilagare del male? Tutto quanto noi chiamiamo con quel nome (e  non solo nel caso dell’esercizio dell’attività penale) è  di norma orientato a contenere la sopraffazione. Qui invece sembra che nulla trattenga  i violenti.

Per comprendere il senso del passo, bisogna ricordarsi di un altro versetto del Sermone: «Cercate prima il regno di Dio e la giustizia di lui e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Dal contesto (e dal parallelo lucano (Lc 12,30-31) si comprende che quel «di lui» è riferito innanzitutto al Padre. La giustizia che va ricercata è quella che ci induce a prendere come modello la maniera di agire del Padre: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 42-43).

Nelle parole di Gesù non scompare la distinzione. In essa infatti si continua a parlare di malvagi e buoni, di giusti e ingiusti. La prospettiva è addirittura opposta alla facile indulgenza che fa di ogni erba un fascio. Anzi, è proprio il mantenimento di questo discrimine a impedirci  di rispondere al male con il male, a precluderci la vendetta. Solo se si è miti si può rendere incrollabile il muro che separa la giustizia dall’ingiustizia. Se invece ci si comporta in modo simmetrico, ritorcendo contro l’altro quanto si è subito,  si riconsegna il bene al male e si è vittime dello spirito di vendetta, o almeno di quello del rancore («perdono ma non dimentico»). Nulla al pari della mitezza rende netto, rispetto al proprio e all’altrui cuore, il confine che separa la giustizia dall’ingiustizia.

L’essere mite comporta sentirsi corresponsabile dell’ostilità altrui e quindi respinge l’aggressività in una maniera tanto risoluta da sapere che vendetta e rancore possono annidarsi nel nostro animo quando esso è avvinghiato al ricordo delle offese ricevute. La parola più mite diviene perciò la più esigente, quella che ci giudica in virtù della sua stessa mitezza. Colta il questa luce, la divisone tra i cristiani è scandalo gravissimo, è antievangelo allo stato puro. Lo è non a motivo della lacerazione sulla verità,  a causa di dottrine giuste o errate, di ortodossie proprie e di eresie altrui, ma in ragione della radicale incapacità di liberarsi dal rancore, vale a dire di non essere fedeli alla chiamata a essere reciprocamente responsabili dell’ostilità dell’altro. Lungo tutta la loro storia le comunità cristiane continuano a mostrarsi «umane, troppo umane». Il Discorso della montagna contiene a un tempo le parole più severe e la chiamata e la speranza più alte: «se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei» – gruppi entrambi formati da persone per bene, rispettate e rispettabili – «non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).  «Se infatti amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?… Sarete dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,46-48). Non si tratta di un’esortazione; nel testo originale c’è non  un «siate»,  bensì un «sarete»: è un impegno che sfocia in una promessa.

La preghiera non è tutto. Se fosse così il nostro pregare prenderebbe il posto di Dio. Il passo dell’Esodo prima proclamato (Es 3,1-10) contiene la chiamata di Mosè inviato a liberare il suo popolo. La premessa per comprendere questa missione si trova nelle righe che chiudono il capitolo precedente: «i figli di Israele gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe» (Es 2,23-24). Il  testo non dice che il loro grido fosse rivolto a Dio: è il Signore a rivolgersi al lamento. Non si trattò di una preghiera. Fu il lamento a salire in cielo e a turbare la pace di Dio e a fargli ricordare il  suo impegno, la sua alleanza. Il gemito degli schiavi vale più della preghiera. Non è parola semplice. Quando si guarda al mondo siamo infatti costretti a dire che in esso c’è un mare immenso di lamenti, mentre Dio sembra non udirli. Ma forse ci è chiesto di essere persino più risoluti e togliere il «sembra»: Dio non li ode. L’interrogarsi sulla sordità divina è domanda vera, che va tenuta drammaticamente aperta, ma lo è solo se  riconosciamo prima di tutto la nostra incapacità a udire e se sappiamo di non essere mai tanto fedeli all’immagine di Dio impressa in noi come quando la voce del lamento altrui riesce a penetrare nei nostri orecchi e a trovare una povera ospitalità nei nostri cuori.

 

 

 

 

189 – Pregate sempre per la giustizia (27.01.08)ultima modifica: 2008-01-26T09:15:00+01:00da piero-stefani
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