186 – Il forse di Dio (06.01.08)

Il pensiero della settimana, n. 186

 

«Si può ben essere in una storia e tuttavia non capirla». Questa frase gli continuava a ronzare nella testa. Sapeva di averla letta da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove. Giuseppe era un lettore accanito. Di solito la sua memoria non lo tradiva: sapeva dove situare una citazione tra le decine di migliaia di pagine cadute sotto i suoi occhi. Una volta qualcuno gli aveva detto che ciò avveniva perché era lui il primo a non tradire la memoria. In effetti, Giuseppe era solito trattare la propria mente come un terreno poroso capace di assorbire e non come una superficie levigata su cui tutto scorre via.

Anche senza volerlo, questo modo di atteggiarsi si era trasformato in lui in una forma di sicurezza. Era troppo avveduto per non sapere che le cose stavano altrimenti, eppure gli si era instillato il falso convincimento che la testa fosse una specie di muscolo come gli altri, vale a dire che l’esercizio la potenziasse al punto di garantirle un futuro favorevole. Tenerla in esercizio equivaleva ad aprire fondi di investimento mentali: avrebbero fruttato, erano forme di risparmio sicure. La sua intima speranza si era trasformata in segreta, infondata, certezza: sarebbe rimasto lucido anche quando fosse stato vecchio.

Fu ridestato da questo dormiveglia dogmatico da una conversazione casuale. Incontrò in libreria un amico di lunga data. Parlarono di progetti  futuri. Alcuni di essi dovevano coinvolgere persone ormai in là con gli anni. Si scambiarono le solite considerazioni che si fanno in queste circostanze: qualcuno è in gamba anche in età avanzata, altri sono in decadenza, o addirittura in caduta libera. Giuseppe, come amava fare, si rifugiò in una citazione brillante: «Se un giovane smarrisce il cappello dice di averlo smarrito. Il vecchio dice: “Ho smarrito il cappello, sto diventando vecchio”» (Dottor Johnson). L’amico però lo fulminò ricordandogli il rimbambimento senile di Kant. Per lui fu una rivelazione dolorosa non in quanto all’oggetto, il particolare gli era ben noto, bensì riferita a se stesso. In quell’attimo si rese conto quanto nel suo scantinato irrazionale avesse coltivato l’illusione di farcela. Qui valeva a pieno titolo un ragionamento a minori ad majus: «se è capitato a lui, figuriamoci se non può capitare a me».  Da quel momento decise di essere più severo con se stesso e di guardare più nudamente al gran baratro del possibile: «La più pesante di tutte le categorie, come ben a ragione affermava Kierkegaard», ripeté tra sé.

A partire dal quel pomeriggio, quando non riusciva a ricordare velocemente un nome, una frase, un autore, Giuseppe vedeva alle proprie spalle l’ombra di Kant. Avvenne anche quella volta in cui, per quanto si astrologasse, non fu in grado di farsi tornare in mente l’autore della frase: «Si può ben essere in una storia e tuttavia non capirla». Per un certo tempo oscillò  tra non banali riflessioni sul possibile e una più superficiale irritazione con se stesso. Né l’una né l’altra attività mentale lo appagarono. Saggiamente decise, allora, di ispirarsi, in senso lato, a Kant: accettare i propri limiti è l’unico modo per pensare con fondamento che c’è qualcosa oltre a essi. Solo non confidando troppo in se stessi si capisce che il mondo è davvero più grande di noi. Lasciate cadere le scorie, iniziò a riflettere sul contenuto della frase: aveva in se stessa qualcosa di misterioso, eppure, nel contempo, sembrava  ovvia e scontata.

È esperienza di tutti:  ognuno di noi si trova dentro una vicenda di cui non conosce i contorni e di cui ignora la fine. Si potrebbe addirittura concludere che sarebbe più giusto mutare di segno alla frase: «si è in una storia e proprio per questo non la si capisce». Per comprenderla bisognerebbe esserne fuori. Occorrerebbe scrutarla dall’alto in basso come avviene  quando, dalla cima di una montagna, si vede scorrere giù nella valle un torrente che diventa, in lontananza, piccola fettuccia argentea. Le acque tumultuose non sanno dove vanno, mentre l’osservatore ne conosce la direzione.

Il grande narratore è il contrario del profeta. Quest’ultimo è tenuto a proclamare quel che gli altri non sanno, il primo, invece, raggiunge il proprio apice espressivo quando riesce a ignorare quanto sa. È lui a creare la trama, ma essa è tanto più robusta quanto più è in grado di mettere in scena personaggi che agiscono non sapendo nulla di ciò che toccherà loro in sorte. Ciò avviene soprattutto quando i protagonisti, che pure sono figure chiamate all’essere dal narratore, guidano a propria volta lo scrittore. Allora il creatore si lascia condurre dalle proprie creature e cerca, assieme a loro, il senso della storia che sta scrivendo.  «Non sono prospettive nuove  – disse tra sé Giuseppe –  gli esperti di narratologia vi hanno lavorato a lungo; eppure…».

Sì, c’era dell’altro. Il pensiero più caro che gli affiorò a forza di circumnavigare la frase fu di chiedersi se, il primo  tra tutti i produttori di storie – «perché non chiamarlo  il sommo Narratore?» – sia paragonabile a uno scrittore nel momento in cui sa o non piuttosto quando, come se non sapesse, si lascia guidare dalle proprie creature e cerca con loro il senso della vicenda che sta dipanando. Dio sta dalla parte del veggente apocalittico che coglie tutto prima o da quella di chi racconta storie il quale, pur essendo il  primo responsabile della trama, si lascia prendere per mano dai propri personaggi? «Per le ortodossie – pensò Giuseppe – la risposta è scontata: se Dio è Dio, non può che avere una completa prescienza. Questa presunta certezza è pagata a caro prezzo. Da essa seguono a cascata problemi impossibili tanto da evitare quanto da risolvere. La loro è voce imperiosa che non si può tacitare, ma tutti i tentativi di venirne a capo sono destinati allo scacco. Non ci sarà mai una non fittizia  riconciliazione  tra prescienza divina e libertà umana, tra onnipotenza del Creatore e libero arbitrio, tra esistenza di leggi deterministiche che regolano sia il cosmo sia la sfera della vita e facoltà di scelta autofondata. Perché non provare, allora, a guardare a Dio come a un grande narratore che, pur responsabile dell’intreccio, si lascia condizionare e arricchire dai suoi personaggi? Perché non pensare all’uomo, o addirittura alla creazione nel suo insieme,  come al “forse di Dio”? Dio è il primo  garante della libertà perché cammina con le proprie creature pur essendo l’unico che si trova nelle condizioni di farle giungere a un buon fine o, all’opposto, di farle precipitare nel nulla.» Dopo aver formulato per se stesso queste riflessioni, Giuseppe chiosò con poche parole un frammento biblico tratto del profeta Michea: «Uomo, ti è stato raccontato ciò che è bene e ciò che il Signore cerca da te: che altro se non fare il diritto, amare la pietas e camminare umilmente con il tuo Dio?» (Mi 6,8): «Dunque  Dio cammina; è lui il primo a essere umile e ad anteporre i passi alla meta».

Piero Stefani

 

P.S. «Si può ben essere in una storia e tuttavia non capirla» è frase tratta dal quarto volume, Giuseppe il Nutritore, del romanzo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli.

186 – Il forse di Dio (06.01.08)ultima modifica: 2008-01-05T09:31:00+01:00da piero-stefani
Reposta per primo quest’articolo