185 – Vivere il proprio morire (30.12.07)

Il pensiero della settimana, n. 185 

Premessa

 

Ci sono almeno due motivi che renderebbero non opportuno chiudere l’anno con questo testo: a) in questi giorni sta uscendo come articolo sul n. 22 di Regno-attualità; b) riprende buona parte del pensiero della settimana n. 136; di contro vi sono almeno tre motivi che rendono conveniente presentarvelo: a) non tutti i lettori di questa rubrica lo sono anche del Regno; b) è bene far memoria di un evento al centro dell’interesse un anno fa e oggi, nella sostanza, ancora aperto davanti a noi; c) la scelta di ripresentarlo in quest’epoca dell’anno vuole essere un augurio alla dirigenza della chiesa italiana perché nel 2008 si liberi dal suo attuale corto respiro e comprenda la grandezza della vera misericordia.

Un caro augurio anche a tutti voi.   

Welby un anno dopo

Vivere il proprio morire 

 

Siamo nell’Egitto di pochi decenni fa. Umm Nasr (Madre di Nasr) è da tempo vedova.  Allevò i figli, lì condusse all’età adulta e divenne certa che ognuno di loro aveva ormai trovato la propria strada. Fu allora che avvertì di aver portato a termine il suo  compito. Non era ancora anzianissima, ma si sentì ugualmente  vecchia e sazia di giorni.  Pensò che era giunto per lei il tempo di chiudere per sempre gli occhi. Anche il medico lo confermò, per vivere avrebbe avuto bisogno di un intervento al cuore. Scrive il figlio: «Andai a Quhāfa con il miglior cardiologo dell’epoca […] il dottor Badrân la visitò e le disse sorridendo che emanava una fragranza come se si fosse profumata. Rivolgendosi a me, mi rassicurò sulle sue condizioni, non erano gravi, era possibile operare, ma le circostanze dell’operazione sarebbero risultate avvilenti per lei. Usciti dalla sua stanza aggiunse che  mia madre aveva deciso di morire. “Non voglio esporla a una  tale situazione. L’operazione potrebbe anche riuscire dal punto di vista tecnico, ma la cosa più importante è la volontà di vivere del paziente. Lei ha deciso di morire perché ha portato a termine tutto quello che si era prefissata di fare”. Sbalordito guardai il medico e non dissi nulla. “Vedo che è una persona molto pulita”, continuò il dottor Badrân. “Se la ricoveriamo in clinica non troverà la pulizia di cui ha bisogno. E questa è una donna che potrebbe morire per il solo fatto di non sopportare l’odore del proprio corpo. Per questa ragione sconsiglierei l’operazione»[1]. Seguirono il parere del medico.

Alcuni lettori forse diranno in cuor loro che si tratta di una storia molto orientale. Aggettivo ambiguo, posto in precario equilibrio tra il fatalistico, il favoloso e l’arcaico. Tuttavia in Umm Nasr non vi è la pura accettazione dell’ineluttabile. Necessario è solo il morire, mentre i tempi in cui cessare di respirare dipendono anche da una scelta esistenziale personale, decisione impossibile da giudicare in base a parametri che si riferiscono a pratiche attive o omissive. Lei non sceglie, né rifiuta di farsi operare. La sua volontà non è neppure un fattore primario; essa  è piuttosto una conseguenza della consapevolezza di aver portato a termine quanto le era stato chiesto dalla vita. Quella donna semplicemente non desiderava sopravvivere a se stessa. Lo sguardo umano del dottor Badrân se ne accorse. Non ci fu bisogno di psicologi, bastò un medico. Seppe leggere nell’intenzionalità del paziente. Capì che la fragranza e la pulizia del corpo erano una specie di testamento biologico scritto dalla malata nel suo corpo. Si comportò di conseguenza.

Umm Nasr era persona credente. Per lei la vita non si chiudeva con la morte. Ella sapeva che Allah è colui che dà vita ai morti. Con ogni  probabilità era a conoscenza della storia degli ultimi istanti di vita di Muhammad, l’inviato di Dio. In quella narrazione si danno la mano il Paradiso e un umilissimo atto di pulizia quotidiano che noi sapremmo qualificare soltanto come igiene orale. Così trasmise il ricordo di quei momenti supremi Aishah, la sposa del Profeta: «In quel giorno l’inviato di Dio tornò a me, rientrando dalla moschea contigua, e si sdraiò di fianco sul pavimento appoggiandosi al mio grembo. Entrò allora da me un uomo della famiglia di Abu Bakr, con in mano un ramoscello  di colore verde per nettare i denti. L’inviato di Dio guardò la mano di colui in modo ch’io intesi che lo desiderava, sicché gli domandai: “O inviato di Dio, vuoi che ti dia questo ramoscello?” Rispose «Sì». Allora lo presi, lo masticai per lui sinché lo ebbi reso tenero; poi glielo diedi, e con esso egli si pulì i denti, usando il massimo di forza ch’io gli avessi mai veduto adoperare in ciò; indi lo depose. Io sentii l’inviato di Dio farsi pesante sul mio grembo; gli guardai il viso, ed ecco che il suo sguardo era diventato fisso, mentre egli mormorava: “Al contrario, voglio il Compagno sommo, dal Paradiso”. Allora esclamai: “Ti è stata data la scelta fra la terra e il cielo e, tu, per Colui che ti ha mandato ad apportare il vero, hai scelto”. L’inviato di Dio era spirato». [2]

Quel «al contrario», sussurrato quando il corpo già stava appesantendosi, lascia immaginare la presenza di una decisione.  Così la interpretò giustamente Aishah. Davanti a Muhammad  vi era la possibilità di continuare a vivere su questa terra; non gli mancava il vigore, mai si era pulito i denti con tanta forza. Vi era però anche l’alternativa di conoscere dappresso il Compagno sommo. Optò per quest’ultima e lo  incontrò con i denti nettati. Muhammad scelse il cielo restando fedele alla terra, con il capo reclinato sul grembo della sposa.

Come stanno le cose in Occidente? C’è una grande direttrice: vi è un nucleo dell’esistenza umana che nessuno dovrebbe offendere o avvilire: la dignità. Del resto è la vita stessa a insegnarci che la più atroce umiliazione consiste nella perdita della facoltà di governare se stessi. Tutti sanno che si può essere umiliati non solo contro la propria volontà, ma anche indipendentemente da eventuali scelte sbagliate compiute nella propria esistenza. Non sempre si è padri della propria degradazione. Ciò avviene precisamente quando altri mostrano pubblicamente di disporre a proprio piacimento di noi. In quel caso risulta palese che la persona è ferita nella sua dignità proprio perché a lei è negato, nella pratica, di essere creatura umana.

Se l’autodeterminazione fosse il sigillo unico della condizione umana, la morte sarebbe la più radicale smentita della dignità della persona. In nessun altro frangente risulta più incontestabile che è «Altri» a disporre di noi. In realtà, una certa forma di dipendenza fa parte del nostro essere. Al cospetto della morte la dignità umana non sta nel vincere una guerra la cui sorte è segnata in partenza, ma nei modi in cui si affronta quello scontro. L’autodeterminazione si può manifestare solo nella scelta delle maniere con cui consegnarsi al nemico. Non stupisce dunque che, tanto nell’antichità quanto nella modernità, non pochi abbiano sostenuto che il modo meno inadeguato per salvaguardare la propria dignità di fronte alla morte sia quello di decidere da se stessi quando uscire di scena. Tema quest’ultimo assai inquietante in un’epoca come la nostra in cui, in più occasioni, l’allungamento artificiale ed eterodiretto della vita diviene un fattore che intacca la dignità di chi è prossimo a morire. Dunque non si tratta più solo di discutere sul suicidio.

 Nelle opulente società occidentali  la scienza e la tecnica si mostrano sempre più in grado di prolungare artificialmente la vita al di là del suo naturale limite biologico. Da qui nasce il problema, ignoto alla massima parte dell’umanità sia secondo il parametro dello spazio sia in base a quello del tempo, se e quando sia lecito interrompere l’allungamento tecnico dell’esistenza. Quest’ultimo problema, è ovvio,  insorge soltanto quando è all’opera il primo fattore; eppure spesso si ragiona come se ci si trovasse di fronte a una variabile indipendente. Molti passi in avanti si compirebbero perciò se si prendesse prioritariamente in considerazione se e quando sia lecito ricorrere a mezzi «straordinari e sproporzionati» per prolungare artificialmente l’esistenza umana. In tal caso la questione della sospensione sarebbe risolta  ancor prima di essere posta. Seguendo questa impostazione non verrebbe del tutto sciolto il nodo legato alla «zona grigia» di dover stabilire quali siano i confini tra ordinario e straordinario, tra proporzionato e sproporzionato [3]; tuttavia sarebbe più agevole comprendere che  si è di fronte a questioni legate, in gran parte, a condizioni di esistenza connesse tanto all’iniqua distribuzione delle risorse in atto nel nostro triste pianeta,  quanto a visioni del mondo proprie delle singole civiltà. In ogni caso, la scelta responsabile avrebbe maggior spazio per esprimersi.

Qualche anno fa  i vescovi svizzeri hanno redatto un ampio documento intitolato La dignità del morente (cf. Regno-doc., 15,2002,489). Come tutti gli interventi su questo argomento, anche in questo testo la suprema serietà del tema deve far i conti con faticosi distinguo propri di chi – per usare un’espressione del documento –  cammina sul filo del rasoio al fine di stabilire il piccolissimo intervallo che a volte separa il lecito dall’illecito. Dalla sua lettura risulta, comunque, in modo netto sia una risoluta presa di distanza dall’accanimento terapeutico, sia un aperto, insistito sostegno alle cure palliative giudicate la maniera più autentica per sostenere la dignità del morente. Tutto ciò però si regge su un punto chiave: anche la eterodeterminazione e la dipendenza vanno considerati valori profondamente umani. Esse, non meno della autodeterminazione, appartengono all’essenza e alla dignità dell’uomo che, al pari di ogni altro vivente, non si è dato da solo la vita.

La morte, aggiungiamo, può diventare umanamente accettabile quando ci si rende conto che non tutto può essere  posto  sotto l’insegna della libertà. La libertà intesa come arbitrio è il simulacro falso e labile di questo grande, insostituibile valore. Il suo volto più autentico sta nella libertà vista come responsabilità nei confronti di sé e degli altri. È però del tutto conforme alla dignità umana essere posti nelle condizioni (e ciò dipende anche da altri) di riuscire a vivere il proprio morire. Non sempre questa possibilità è oggettivamente data; tuttavia è certo che si è di fronte a un agire iniquo quando  essa viene artificialmente tolta.

Piero Stefani

 

 

 

 




[1] N. H. Abû Zayd, Una vita con l’islam, il Mulino, Bologna 2004, p. 89.

[2] Cit. in S, Noja, Maometto Profeta dell’Islam, Mondadori, Milano 1985, p. 316

[3] L’espressione «zona grigia» derivata da I sommersi e i salvati di Primo Levi è stata applicata ai problemi bioetica dal card. Martini nel suo colloquio con Ignazio Marino; cf. Regno-doc., 15,2006,505.

185 – Vivere il proprio morire (30.12.07)ultima modifica: 2007-12-29T09:00:00+01:00da piero-stefani
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