136 – Quando sorge un caso (10.12.06)

Il pensiero della settimana, n. 136

 

Cosa sia «un caso» è espressione non facile da circoscrivere. Può trattarsi di una qualifica generica per indicare, ad esempio, una qualsiasi vicenda giudiziaria; il suo legame con l’accadere viene però esaltato soprattutto quando una situazione individuale assume il ruolo di paradigma esemplare per avvenimenti simili. In queste  circostanze, la peculiarità di una vicenda legata a una persona si confronta con  la constatazione che «nessun uomo è un isola»: la campana può suonare sempre anche per noi.

Vi sono casi esemplari legati, molto di frequente, all’esercizio della giustizia. A volte, come avviene per Socrate o per Gesù, sono punti di riferimento per millenni. Essi emergono in modo particolare quando un innocente è condannato in base alla legge. Quando dilagano il sopruso, la violenza e la sopraffazione il caso morde meno: in tali occasioni l’aggravante sta nella reiterazione, non nell’esemplarità. Di contro, allorché la legalità di una procedura sfocia in una palese ingiustizia, si crea un caso a un tempo singolare e universale. Nella dimensione effettiva si tratta di una persona, in quella potenziale di molti individui. Si decide su uno, ma è come se lo si facesse per tutti.

Nella storia vi sono stati parecchi casi: alcuni molto celebri, altri meno. Tuttavia anche questi ultimi, specie nell’età contemporanea, divengono tali solo se coinvolgono l’opinione pubblica e diventano luogo di confronto tra visioni contrastanti. Nell’Egitto degli anni novanta sorse il caso Abû Zayd. Si trattò della vicenda, singolare,  di un professore di islamistica dell’Università del Cairo. Venne accusato di apostasia per alcune sue ricerche di carattere ermeneutico-culturale relative al testo coranico.

Nella giurisprudenza musulmana vi è una regola, chiamata hisba,  in base alla quale qualsiasi persona non coinvolta direttamente nei fatti può sporgere denuncia davanti a un tribunale qualora ritenga che sia in qualche modo leso il diritto della collettività. Un altro principio del diritto islamico vieta a una donna musulmana di sposare un non musulmano. Collegando queste due norme alcuni esponenti dell’islamismo radicale si appellarono al tribunale perché ponesse fine a un matrimonio tra un apostata (vale a dire un non musulmano) e una musulmana. Nel 1995 il tribunale, contro il loro parere, impose ai coniugi di divorziare. Scoppiò un caso. La sentenza, in virtù dell’indipendenza della magistratura, non fu annullata; nella legislazione egiziana fu però introdotta una modifica, invero molto contenuta, del principio dell’hisba. I due coniugi si trasferirono in Olanda. Abû Zayd ora insegna all’Università di Leida.

La vicenda  è raccontata in un bel libro autobiografico (N. H. Abû Zayd, Una vita con l’islam, il Mulino, Bologna 2004). Leggendolo si imparano molte cose, anche in riferimento alle devastanti trasformazioni in corso nella società egiziana. Il protagonista è nato in un villaggio dell’Egitto degli anni quaranta: in sessanta anni ha assistito a colossali trasformazioni di mentalità e di costumi.

In una pagina del libro si descrive la morte della madre: «Quando poté essere certa che ognuno di noi [figli] aveva trovato la sua strada nella vita e non aveva più bisogno di lei; quando ebbe la sensazione di aver svolto il suo compito mia madre morì. Anche  il medico me lo confermò. Avrebbe avuto bisogno di un intervento al cuore. Andai a Quhâfa con il miglior cardiologo dell’epoca, conosciuto tramite un amico, perché la visitasse. Quando si rese conto di essere prossima alla fine mia madre fece ritorno al villaggio. Il dottor Badrân la visitò e le disse sorridendo che emanava una fragranza come se si fosse profumata. Rivolgendosi a me, mi rassicurò delle sue condizioni: non erano gravi, era possibile operare, ma le circostanze di un’operazione sarebbero risultate avvilenti per lei. Usciti dalla sua stanza, aggiunse che mia madre aveva deciso di morire. “Non voglio esporla a una tale situazione. L’operazione potrebbe anche riuscire dal punto di vista tecnico, ma la cosa più importante è la volontà di vivere del paziente. Lei ha deciso di morire, perché ha portato a termine tutto quello che si era prefissata di fare […] Vedo che è una persona molto pulita […] Se la ricoveriamo in clinica non troverà lì la pulizia di cui ha bisogno. E questa è una donna che potrebbe morire per il solo fatto di non sopportare l’odore del proprio corpo. Per questa ragione sconsiglierei l’operazione”» (p. 89). Morì nel giro di pochi mesi.

In alcune società i problemi legati al testamento biologico erano semplicemente superflui. In Italia in questi giorni è aperto davanti a noi il «caso Welby». Si tratta di  una situazione che, per voce stessa del protagonista, mette tragicamente in ridicolo il principio secondo cui bisogna rispettare la vita «fino al suo termine naturale». In effetti solo una mancanza di intelligenza e l’assoluta incapacità di saper leggere «i segni dei tempi» possono giustificare il ricorso a un aggettivo a un tempo improprio ed empio. Visto che, alle nostre latitudini, la saggezza del dottor Badrân ha poco diritto di cittadinanza, visto che su questo fronte il «tollerante» cattolicesimo vieta quanto è ammesso dall’«intollerante» islam, ci sia almeno concesso di stabilire per testamento, oltre a quanto succederà dei nostri beni dopo la nostra morte, anche cosa avverrà del nostro corpo quando altri gli vietano di morire.

Piero Stefani

 

 

136 – Quando sorge un caso (10.12.06)ultima modifica: 2006-12-09T13:15:00+01:00da piero-stefani
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