92 – Et incarnatus est (25.12.05)

Il pensiero della settimana n. 92

 

Un venerabile detto patristico molto caro all’Oriente cristiano afferma che Dio si è fatto uomo perché quest’ultimo diventasse Dio. Il mistero di questo scambio è celebrato nella messa di mezzanotte: «Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce e in questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria». Nel momento in cui più forte e stringente si fa la memoria dell’incarnazione del Verbo, la Chiesa fissa lo sguardo in alto, nella gloria di un’umanità posta nei cieli. L’esser uomo ha trovato ospitalità perenne nel cuore della vita di Dio. Riferendosi al Verbo e alla sua incarnazione, un’antica preghiera latina diceva: «id quod fuit permansit, et quod non erat assumpsit». Il divino ha assunto in modo non transitorio l’umano. In lui, ora, oltre alla divinità, rimane per sempre  anche l’umanità. Contemplando il secondo dei policromi cerchi con cui raffigura la Trinità, Dante, alla fine del suo viaggio, attesta: «dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta della nostra effige» (Paradiso XXXIII, 130-131). Per dire il mistero di questa compenetrazione senza confusione di divino e umano, Dante immagina il paradossale rilevarsi di una figura perfettamente omogenea allo sfondo su  cui è posta.

Tutto ciò avviene in cielo. A noi preme però anche quanto si dispiega sulla terra. Amiamo pensare a Gesù come un uomo in cui poter scorgere, senza poterle né fondere, né separare, le fattezze di Dio. Qui non c’è gloria celeste, c’è la fatica del vivere che comincia con i vagiti e termina con il venir meno dell’ultimo respiro. Inizia a Betlemme e termina sul Golgota. Se non si scorge il volto divino in questo lasso di tempo la gloria celeste ci appare, anche nella notte di Natale, più una fuga che un ritorno a casa. Ripetere con Ireneo che la gloria di Dio è l’homo vivens è affermazione grande soltanto se il vivente è colto nella dignità e nella povertà della sua esistenza, vale a dire solo se lo si colloca su una terra non trasfigurata. La gloria di Dio è l’uomo capace di testimoniarne la presenza in un mondo che, nel suo violento, interno dilaniarsi, sembra negare la bontà della propria origine.

Chi è l’uomo di Dio? È un uomo di cui Dio ha bisogno per attestare al mondo la sua stessa esistenza. È un testimone di Dio. Ciò significa che il mondo e la storia da soli non bastano a rendere manifesta la divina presenza. L’uomo è capace di tanto quando non può fare a meno di vivere per Dio anche quando quest’ultimo si cela ai suoi occhi. Allora è il tempo di dire coram Deo il nostro abbandono: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Neppure in una notte in cui gli angeli hanno ripiegato le loro ali e hanno affogato nel silenzio il loro canto egli può dimenticarsi di Dio. Ne testimonia la presenza perché, anche nelle tenebre, per lui Dio e il prossimo contano più di se stesso. Raro, ma non impossibile incontrare nei nostri giorni sulla terra simili persone. Il loro cuore è un vero presepe vivente, una culla capace di contenere in sé i segni certi di Dio. Oggi l’antico detto patristico può essere trascritto così: Dio si è fatto uomo perché nelle nostre vite ci sia dato di incontrare uomini di Dio dei quali Gesù è l’icona massima e unica.

Piero Stefani

92 – Et incarnatus est (25.12.05)ultima modifica: 2005-12-24T08:05:00+01:00da piero-stefani
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