81 – Quando il Figlio dell’uomo verrà (09.10.05)

Il pensiero della settimana, n. 81.

 

  Premessa: il pensiero si presenta come prosecuzione di quanto scritto nel n. 79.

 

Non di rado, di fronte allo scarso ardore o all’aperta fiacchezza della fede dei credenti e alla squallida situazione in cui giace il mondo si sente ripetere l’interrogativo del vangelo di Luca: «Ma il Figlio dell’uomo che viene troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Si tratta di una domanda propria del credente. La sua formulazione non lascia adito a equivoci. L’interrogativo sulla permanenza della fede è davvero tale, vale a dire resta aperto. Esso sorge solo all’interno di un presupposto che rappresenta il contenuto più alto e arduo della fede evangelica: la venuta del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi. Se la storia del buon annuncio evangelico fosse giunta alla sua effettiva estinzione, ciò comporterebbe in prima istanza lo svanire della possibilità stessa della venuta del Signore. Il Figlio dell’uomo semplicemente non verrebbe mai. Fuori della fede non vi è alcun riferimento a una fine dei tempi contraddistinta non da una estinzione lenta o brusca di quanto c’è, bensì da un sopraggiungere di quanto ancora non è presente. 

L’espressione di Luca trova corrispondenza nel tenace, provato permanere del piccolo numero di credenti non ingannati di cui parla Matteo: «Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. Ma chi persevererà fino alla fine sarà salvo» (Mt 24,13). La presenza di un «resto» confuta il totale estinguersi della fede. Nel primo vangelo il restringimento del nucleo dei credenti ha come contraltare l’allargamento dell’annuncio evangelico; subito dopo infatti si legge: «Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine» (Mt 24,14). Affermazione potente che ha influito  sulla storia. Lungo i secoli essa ha sospinto molti credenti ad annunciare il vangelo a ogni latitudine e longitudine. Ciò era necessario perché sopraggiungesse il compimento del regno di Dio. Si è trattato di un impulso inesauribile che ha fatto travalicare monti, disboscare foreste, solcare oceani: «Soli per selve inospite; / Vaghi  in deserti mari; / Dall’Ande algenti al Libano / D’Erina all’irta Haiti, / Sparsi per tutti i liti…» (Alessandro Manzoni, La Pentecoste, vv. 83-87).

I due  volti si rimandano l’un l’altro: la diffusione della buona novella del regno è il luogo massimo per misurare la presenza e la debolezza del credere. Si può essere più radicali: è il punto archimedeo per interrogarsi sul fallimento della fede. Domanda che nasce solo  se si hanno fissi davanti agli occhi sia il regno che viene sia i segni immensi di irredenzione sparsi ovunque in questo nostro mondo. La speranza in una pienezza di vita differente dall’affievolirsi del respiro che consegna tuttora alla morte la nostra esistenza dice la debolezza della fede a salvare, ne afferma l’impotenza e addita in essa la presenza dell’incredulità. L’interrogativo  se il Figlio dell’uomo nel suo venire troverà fede sulla terra non è espressione di un dubbio relativo al credere,  né sostiene che l’ipotesi dell’esistenza o dell’inesistenza di Dio si diano alla pari. È una domanda interna al credere che consegna la nostra fede alla piccolezza svelandone l’impotenza. Per avere una testimonianza lacerata, e perciò vera, di tutto ciò basta leggere, quasi a caso, una qualunque pagina di Sergio Quinzio.

Piero Stefani

 

 

 

 

 

 

 

 

81 – Quando il Figlio dell’uomo verrà (09.10.05)ultima modifica: 2005-10-08T09:00:00+02:00da piero-stefani
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